Incontro con sé stessi significa anzitutto incontro
con la propria ombra. L'ombra è in verità come una
gola montana, una porta angusta la cui stretta non
è risparmiata a chiunque discenda alla profonda sorgente
Gli archetipi dell'inconscio
collettivo (1934-1954)
Carl Gustav Jung
E' mio personale convincimento, e ritengo, non solo mio, che tutte le teorie riguardanti le cose dell'anima, siano abitate dal forte carico di soggettività dei loro autori; per dirla con Bateson, costituiscono veramente un inestricabile intreccio tra epistemologia con la e minuscola ed epistemologia con la E maiuscola, come tali inattraversabili solo con le coordinate della ragione discorsiva, ma più spesso, attraverso i rinvii laceranti del cuore.
Il mio incontro con Bateson risale a circa vent’anni fa, quando mi accostai alla sua Ecologia della mente, che compresi molto più tardi, per una sorta di hybris mentalistica, “di pregiudizio”, che mi impediva di percepire esteticamente, prima di tutto la mia relazione con quest’autore angloamericano, che vedeva nell'atto del conoscere un processo di costruzione inventiva e non di ricezione passiva: “fra noi e le cose come sono c’è sempre un filtro creativo”.
Un processo inconsapevole, non assimilabile all’ordine della spiegazione,(erklaren) il cui significato è dato, anticipato dalla ragione, ma a quello estetico di sentirsi e di percepire, che appartiene all’ordine simbolico, ad un ordine di senso molto più complesso, che come tale oltrepassa il primo: esso attiene all'ordine della comprensione (verstehen), che guarda all'uomo non come apparato psichico o cerebrale, ma come apertura progettuale, che nessun metodo scientifico può valutare e definire chiudendolo nei limiti angusti della spiegazione.
Giustamente, in una raccolta di saggi dal titolo, “Attraverso Bateson”, nella bella introduzione di Sergio Manghi, leggiamo: “così come per un fiore, ci sono almeno due modi per accostare l’opera di uno studioso. Uno viene dal pensarla di fronte a noi:essa ci parla di sé e nulla più. L’altro di pensarla in relazione a noi: essa ci dice allora qualcosa di più:parla anche di noi. Modo frontale e modo auto riflessivo, potremmo chiamarli” (S. Manghi, 1998, pag. 1)
Che significa? Significa che a Bateson, seppure attraverso fraintendimenti, che possono comunque diventare creativi, bisogna accostarsi, comprendendo (verstehen) - e questo è un atto ermeneutico - non spiegando, che “la relazione viene per prima, precede” (G. Bateson, 1984, pag. 179) ed in quanto struttura che connette, fonda l’idea che tutti gli organismi viventi siamo parte danzante di una più ampia danza di parti interagenti (modo auto riflessivo, direi quasi mistico, che connette tutti gli esseri viventi).
L'accoppiamento senso motorio, mente – corpo - ambiente, costituisce per Bateson una unità inscindibile, una danza, appunto, di parti interagenti, che caratterizza l'approccio estetico relazionale, come maniera di abitare ed essere al mondo, attraverso relazioni, pattern, configurazioni, combinazioni di messaggi e di livelli logici, grovigli di metafore, climi emotivi, sensibilità.
Osserva Bateson “con buona pace dei logici, tutto il comportamento animale tutta l’anatomia ripetitiva e tutta l’evoluzione biologica, sono ciascuno al suo interno, tenuti insieme da sillogismi in erba” (G. Bateson, M. C. Bateson, 1989, pag.49)
Quest'ultimi, ben diversi dai sillogismi della logica tradizionale, cosiddetti in Barbara, in cui i membri di una classe condividono il medesimo predicato (esempio tipico: gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate morirà) sono fondati sulla connessione: il predicato connette i due elementi presenti nelle premesse sillogistiche l'erba e l'uomo, come nell'esempio batesoniano: “l’erba è mortale, gli uomini sono mortali, gli uomini sono erba.”(Bateson, 1972, pag. 248)
E l'Epistemologia batesoniana, fondata sull'ordine della comprensione, si esprime, appunto, attraverso connessioni e differenze “in erba” tra entità diverse, attraverso il metodo della giustapposizione, che genera altre somiglianze, tali che la “struttura che connette riguarda vari aspetti e livelli della relazione, altro dalle logica finalistica di stampo razionalistico […] quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me ? E me con voi e tutti e sei noi con l’ameba da una parte e lo schizofrenico dall’altra?” (G. Bateson 1984, pag. 21)
Su questa scia di connessioni , che abduttivamente travalicano i nessi logici di tipo grammaticale, ho cercato di guardare tra le maglie dell'Epistemologia batesoniana, in cui ho creduto di scorgere il rinvio, a mio avviso, ad una sorta di commistione, di trasposizione di alcuni temi che caratterizzano la sua biografia, (senza, certamente, voler ridurre la complessità del suo pensiero alla medesima) e che cercherò di rappresentare, attraverso le parole dello stesso Bateson, con le ineliminabili risonanze della mia epistemologia con la e minuscola, ricordando che “tra noi e le cose come sono c'è sempre un filtro creativo”.
Con questa premessa, che ritengo necessaria, mi accosto, a questa mia narrazione, attraverso Gregory Bateson.
G. Bateson appartenente all’aristocrazia intellettuale, (al cosiddetto Circolo delle famiglie accademiche) figlio di William, eminente scienziato naturale, genetista, nasce a Grantchester il 9 maggio 1904, in un momento in cui il padre è impegnato nella fondazione di una nuova disciplina, la genetica, così da lui stesso denominata, derivante dalla rielaborazione delle leggi di Mendel.
La nascita di un figlio, in quel momento di grande impegno, non viene accolta con grande entusiasmo. Nonostante gli venga dato il nome Gregory, in onore di Gregor Mendel, non avrà la stessa attenzione, le stesse conferme di cui godranno i fratelli maggiori John e Martin.
Ricorda, in proposito, l'antropologa Margaret Mead, prima moglie di Bateson e sua compagna (con la quale, nonostante il divorzio, era rimasta sempre viva quell’intesa intellettuale, sorta in quel contesto quasi mistico, che era per Lui l’estetica della relazione, anche quando l’amore era finito) nell’erratica avventura della ricerca antropologica,che erano loro a ricevere tutte le attenzioni e che erano solo loro, per il padre, destinati a diventare bravi.
Infatti, quando nasce Gregory, nella fattoria dove abita con la famiglia, William Bateson è intento a portare a termine il suddetto progetto di rielaborazione, al quale si dedica, coadiuvato dalla moglie, sperimentando incroci di piante e animali.
Egli educa Gregory, insieme ai due fratelli maggiori John e Martin, all’osservazione scientifica, e alla sensibilità verso la variegata complessità di tutto ciò che presenta il mondo della natura. Vede soprattutto in John, il figlio maggiore, quello più portato a continuare la sua opera, ma questi muore appena ventenne in guerra. Quest’evento luttuoso, fa sì che William cerchi di imporre a Martin, il secondogenito, di prendere il posto del fratello scomparso; da lì un conflitto insanabile.
Martin era studioso di letteratura e autore di un saggio sulle difficoltà della paternità, (significativo di un probabile processo di identificazioni e di proiezioni? Drammatizzazione di un gioco di ruoli volto ad esorcizzare il terrore e tremore di un invincibile confronto con il padre?) iniziato dal padre all’amore per i classici, con letture fatte da lui stesso, dal Vecchio Testamento e da brani di Shakespeare, a parte l’amore per il poeta William Blake (tanto esteticamente presente nell’opera batesoniana) di cui venivano lette le opere, oltre che ammirati i quadri. Aveva scelto l’ impraticabile via dell’individuazione, in una famiglia che, come ebbe a dire lo stesso Bateson, l’ethos tematico era definito da William, che “vedeva l’arte e la letteratura, come una grande cosa del mondo, ma alle quali i Bateson, non avrebbero potuto contribuire.” (D. Lipset, 1982, pag 31)
Martin, probabilmente, sconvolto per il conflitto con il padre, verosimilmente, vissuto come irresolubile in un momento reso emotivamente difficile anche da una delusione sentimentale, si suicida a 22 anni, a Piccadilly Circus, significativamente lo stesso giorno del compleanno di John, il fratello morto in guerra, con un messaggio trasversale, al padre, ritengo, terribile.
È probabile che questa educazione sentimentale, tematizzata dal divieto all'individuazione (perché omen e nomen, cioè il nome Bateson definiva il destino dei figli maschi, una vera e propria saga, alla quale non ci si poteva sottrarre, pena l'esclusione o l'autodistruzione, come abbiamo visto) contrassegnata da un esperienza così lacerante, abbia rappresentato un cofattore nell’intuizione che Bateson ebbe rispetto all’estetica della relazione e quindi all’attenzione, che egli dedicò alle patologie della comunicazione, in particolare a quelle inerenti la famiglia.
Vediamo come in alcuni passi dei suoi scritti, è possibile intravedere, i segni non soltanto di riflessioni sul campo, ma di un sottosuolo dell'anima, in cui i rinvii impliciti sembrano quelli di un'accorata enfasi, veicolata dai messaggi indiretti delle parole, in cui non si può non scorgere la sua esperienza idiosincratica e dolorosa di figlio, o forse anche di spettatore, rispetto al fratello Martin suicida, entrambi attraversati dall'esperienza del diniego all'individuazione: “una condotta affettuosa non implica necessariamente l’affetto; essa per esempio, può esplicarsi nelle forme di fare la cosa giusta, instillare la bontà e così via Che cos'è una persona? Che cosa intendo quando dico io Forse ciò che ciascuno di noi intende per “io” è un aggregato di abitudini.....se Tizio aggredisce le abitudini ...che sono state poste in essere come componenti del mio rapporto con lui, allora tizio nega il mio io, e se questa persona per me è importante, questa negazione sarà ancor più dolorosa” (G. Bateson, 1972)
E poi ancora: “la famiglia schizofrenica è un'organizzazione dotata di grande stabilità di azione, la cui dinamica e il cui funzionamento interno sono tali che ogni membro continuamente subisce l'esperienza della negazione dell'io” (G. Bateson 1972, pag. 257)
In casa Bateson questo tema probabilmente era presente, infatti, nella parte dedicata alla tematica schizofrenica e al contesto comunicativo, che può rappresentarne un co fattore scatenante, egli ha dedicato pagine bellissime, a quella perturbante forma comunicativa, cosiddetta di doppio vincolo, che trova il suo fondamento nell’emissione allo stesso tempo di messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro: un ingiunzione paradossale quindi, che mette chi la riceve, in genere coinvolto in un rapporto ad alto coinvolgimento emotivo (il bambino rispetto alla madre, per esempio) nella condizione di non poter rispondere in maniera appropriata, e di non poter meta comunicare, per il divieto implicito a farlo, e quindi esplicitare i sentimenti reali che si celano dietro le parole .
Ma proprio da quella forma paradossale, da cui potrebbe originarsi la patologia psicotica, emergono l’invenzione, la poesia, il rito, il sacramento, il sogno, il gioco.
Ciò significa, che al di là di ogni dualismo norma-patologia, il double bind, è una categoria strutturalmente e ineludibilmente presente nella comunicazione, che può anche evolvere in una forma non univocamente patogena, anzi da cui può emergere “un altro stadio di saggezza” (Bateson, 1997,pag.422 ) o può diventare addirittura “una vasta e sofferta cerimonia di iniziazione dell’io” (Bateson, 1962, pag. XIX).
Una cerimonia d'iniziazione, come per John Perceval, il figlio psicotico di Spencer Perceval, ucciso a sua volta da un pazzo e per un ironico scherzo del destino, primo ministro di Giorgio III, il re pazzo, che ricoverato in manicomio, in preda ad una psicosi, per due anni, dal 1830 al 1832, riesce a guarire.
Una guarigione, curandosi da sé, come egli stesso riferisce, nelle sue accorate memorie e quindi non attraverso il trattamento sanitario cui è stato sottoposto durante la degenza, ma nonostante e a dispetto “di esso”.
Come dice Paolo Bertrando, che è il curatore del testo italiano del “Perceval” batesoniano, Bateson si congeda dalla psichiatria, nella quale vede solo una tecnologia dormitiva (nonostante, suo malgrado, sia stato uno dei padri fondatori della Terapia familiare), diretta alla cura di una pretesa condizione di malattia, dal momento che non crede esista, né tanto meno possa essere enunciata una condizione umana “normale.”
Non vorrei essere sacrilega, ma è probabile che Martin e Gregory abbiano dovuto attraversare “quel caos dove il pensiero diventa impossibile” (Bateson,1984 pag. 192) nella loro lotta per l'individuazione: il primo implodendo, verso, per lui, un inattingibile apprendimento 3, quindi, cadendo “lungo il margine della strada” (Bateson, 1972, pag. 335) per gli esiti del deuterapprendimento (un apprendere ad apprendere, che si struttura attraverso sequenze di relazioni significative apprese nella prima infanzia,è inconscio,tende sempre ad autoconvalidarsi ed è inestirpabile) l'altro, cioè Gregory, approdando forse ad un apprendimento 3 “attraverso una vasta e sofferta cerimonia di iniziazione dell'io”? (Bateson, 1962, pag. XIX)
Ma cos'è per Bateson l'apprendimento 3?
Esso riguarda l'apprendere sull'apprendimento 2, fenomeno per sé stesso difficile da descrivere e da immaginare anche per gli studiosi, in quanto esseri umani, poiché attiene ad una profonda riorganizzazione del carattere, che può avvenire nel corso di una psicoterapia, di una crisi religiosa o esistenziale, anche se non è detto che ciò accada.
È già importante che detto processo, potenzialmente pericoloso, in quanto “alcuni cadono lungo il margine della strada”(Bateson 1972, pag335) e sono quelli che la psichiatria definisce psicopatici, porti ad una maggiore flessibilità nelle premesse acquisite durante l'apprendimento due, mentre “per altri più creativi la soluzione dei contrari rivela un mondo in cui l'identità personale si fonde con tutti i processi di relazione, formando una vasta ecologia o estetica di interazione cosmica” (Bateson, 1972, pag.335).
La soluzione dei contrari era la difficoltà di conciliare lo script intellettual- naturalista della dinastia accademica dei Bateson, con le istanze di una difficile individuazione?
Vediamo meglio da vicino, cercando di avvicinarci esteticamente a quello che potrà essere stato l'attraversamento di Gregory dopo la morte di Martin. Verosimilmente lo script familiare gli imponeva in quanto unico sopravvissuto dei figli di William, quello non desiderato e mai considerato all’altezza dei fratelli di proseguirne la pesante eredità.
Lo stesso Bateson riferisce il suo biografo diceva di sé “ero sempre uno stupido. O credevo di essere etichettato così, pensavo probabilmente che lo ero. Egli (William Bateson) era sempre un po' imbarazzato per me” (D. Lipset,1982, pag. 27) Raccontava Bateson, che il padre quando vinse la prima onorificenza, dopo aver sostenuto gli esami presso il college che frequentava, aveva detto “è bello sapere che tu sei un poco meglio degli altri, Gregory” (Lipset 1982, pag.27 )
Come sappiamo gli script familiari rappresentano “le aspettative condivise dalla famiglia di come i ruoli familiari debbano essere rispettati all’interno di contesti differenti”. (J. Byng-Hall, 1995, pag. 18)
Aspettativa, significa l’anticipazione di ciò che deve essere detto e fatto nel contesto delle relazioni familiari, ed insieme la pressione da parte della famiglia, affinché i ruoli siano rispettati come da copione. Inoltre se uno dei membri non rispetta la prescrizione assegnatagli, la medesima può essere trasferita ad un altro membro.
Gli script familiari coinvolgono più generazioni: in casa Bateson lo script intelletual-naturalista si tramandava da generazioni ed ora, era passato da John a Martin ed infine a Gregory. Però quest’ultimo, man mano si era reso conto che la biologia non era la sua vocazione, perché dominio del padre, ed avendo, inoltre subito grosse trasformazioni, quale l’osservazione al microscopio in laboratorio, era diventata fredda e impersonale, molto lontana dall’esplorazione sul campo e dal lavoro nelle serre e negli allevamenti, qual’ era stato l’approccio di William Bateson; in altri termini aveva perso il suo l'incanto e cioè l'estetica della relazione, la conoscenza per sensibilità.
Da qui la decisione di abbandonare la biologia e di dedicarsi agli studi antropologici, questa volta, nonostante, William non approvasse la scelta del figlio, ma avendo perso già due figli, non volle rompere con Gregory. D’altro canto l’antropologia, agli inizi del secolo, rientrava nel novero delle scienze naturali, così, per Bateson, inizia l’avventura dell’antropologia. In questo contesto tra gli Iatmul, venne colpito da un bizzarro rito, il Naven, che coinvolgeva il clan, ogni volta che un suo giovane membro compiva per la prima volta un atto da adulto, socialmente importante.
L’approccio struttural-funzionalista di Radcliffe - Brown, suo maestro, centrato su aspetti troppo formali, si era rivelato inadeguato alla comprensione dei significati del rito, per cui, Bateson, avvertendo una sensazione di fallimento, sollecita l’invio di un compagno di ricerca .
Nel 1932, arriva l’antropologa americana Margaret Mead, con cui inizia lunghe conversazioni, attraverso le quali, comprende, come il Naven, per essere correttamente interpretato deve essere contestualizzato attraverso i momenti che ne scandiscono i vari aspetti emotivi. Il tema estetico della conoscenza per sensibilità e della struttura che connette,come è facile intuire, era fondativo nella sua speculazione, faceva parte, direi, del suo apprendimento 2, per averlo mutuato dagli insegnamenti del padre, di cui testualmente diceva “una sensazione vagamente mistica, che si debbano cercare gli stessi tipi di processi in tutti i campi dei fenomeni naturali che ci si possa aspettare di trovare all’opera gli stessi tipi di legge nella struttura di un cristallo come nella struttura della società, o che la segmentazione di un verme di terra si possa realmente comparare al processo di formazione delle colonne basaltiche”. (Bateson, 1972, pag.74)
Solo che Bateson, di questo principio estetico ne aveva fatto una riclassificazione logica, arricchendolo di significati altri, attraverso l'esperienza antropologica e psichiatrica, e forse una sofferta esperienza familiare.
D'altro canto,come ho già detto in premessa, è mio personale convincimento, che la sua speculazione, come epistemologo, psichiatra, antropologo non può essere stata altro dalla sua biografia come persona, a parte un trattamento analitico di tipo junghiano, nonostante la sua avversione per la psicoterapia.
In quest'ultima egli vedeva come immanente, la minaccia, tipica d'altro canto di tutti i contesti di cura, di trasformarsi in una manipolazione dell'altro, e quindi di essere anti-esteticamente fondata sul primato della finalità cosciente (cambiare le persone intervenendo su di esse..).
Infatti, quando intraprenderà la grande avventura con la psichiatria, che durerà più di dodici anni, dal 1949 al 1963, e per la quale è principalmente ricordato, parteciperà a convegni, seminari, frequenta reparti ospedalieri, assisterà a sedute terapeutiche, ma come dirà al suo biografo D. Lipset, la sua domanda è sempre la stessa: “mi interessano, i principi generali e i criteri che Lei usa per riconoscere la salute mentale e le idee implicite ed esplicite, che inquadrano e determinano la situazione terapeutica”. (D. Lipset, pag.187)
Una speculazione complessa, agita sempre all’interno di una continua ricerca di connessioni tra suoi molteplici saperi e la struttura che connette:dalla biologia alla epistemologia, dall’antropologia alla psichiatria, e perché no anche alla letteratura .
Detti saperi, che egli integrò nella sua visione del mondo, si muovevano quindi, sempre all'interno dell'estetica della relazione, cioè dell'idea che il processo interattivo, proprio dei sistemi viventi, si produce a vari livelli organizzativi, individuali, sovraindividuali, subindividuali; conoscenza che connette tutti gli esseri viventi, per simmetrie e omologie seriali.
Essa riguarda il mondo dell'informazione, delle differenze, delle relazioni e della comunicazione, distinto ma non contrapposto al mondo dei non viventi, detto pleroma, che è quello dell'energia, delle forze degli urti.
Con accenti quasi poetici, che caratterizzano l'estetica batesoniana della relazione, così si esprime in proposito, M.C. Bateson: “Di tutte le metafore esistenti, quella più centrale e cospicua, a disposizione di tutti gli esseri umani è il sé. Qui non intendo solo il costrutto psicologico del sé, ma l’intero essere, psiche e soma, il luogo dove per ciascuno di noi si incontrano Creatura e Pleroma.
Il ricorso all’autoconoscenza, come modello per capire gli altri, sulla base di somiglianze o congruenze, lo si potrebbe chiamare comprensione , ma il termine migliore nell’uso corrente mi sembra empatia..Non si deve pensare solo all’empatia tra terapeuta e paziente, ma anche il contadino cui si sia inaridito il raccolto, sente la morte dei suoi campi nel proprio corpo.” (Bateson e Bateson 1989, pag.291)
In questa prospettiva, per una comprensione estetica della vita, è necessaria una visione binoculare, uno stile di pensiero, che coniughi razionale ed emozionale, analogico ed analitico, verbale ed iconico, formale e computazionale.
Una weltanschauung, di cui fa parte anche la dualità della relazione tra osservatore e osservato, una relazione che si produce per differenza e che “non è interna alla singola persona:non ha senso di parlare di dipendenza, di aggressività,o di orgoglio e così via. Tutte queste parole affondano le loro radici in ciò che accade tra una persona e l’altra, non in qualcosa che sta dentro una sola persona………la relazione viene per prima, precede…Solo mantenendo ben saldi il primato e la priorità della relazione si potranno evitare spiegazioni dormitive. L’oppio non contiene un principio dormitivo, l’uomo non contiene un istinto aggressivo (G Bateson,1984, pag 179)
Vorrei concludere, queste riflessioni citando l'ultimo libro che Bateson iniziò a scrivere a quattro mani con la figlia Mary Catherine, completato dalla medesima dopo la morte del padre nel 1980, che come qualcuno ha detto, è veramente al limite tra testo e testamento. Una sorta di romanzo familiare trigenerazionale, tra biografia ed epistemologia, in cui sono presenti tre generazioni legate “dalla regola di Bateson: quella biologica del capostipite, quella ecologica del figlio, quella rinarrativa della nipote”(M. Malagoli Togliatti, A. Cotugno, 1996 , pag. 49) unite da quella trama complessa che è la relazione tra le cose, relazione che sola da senso alle medesime che sarebbero altrimenti, solo “un'accozzaglia di relitti storici” (G. Bateson, M. Catherine Bateson, 1989, pag, 295).
Necessariamente “deve esserci un fondo, su cui poter “cucire” queste complesse relazioni, ma la trapunta a riquadri non è la storia dei vari pezzi di stoffa di cui è fatta. E’ la loro combinazione in nuovo tessuto che da colore e calore” (ibidem)
Con questa bellissima metafora, l'ombra ostinata di Gregory, che non è mai riuscito a placare del tutto il fantasma di suo padre (non è un caso, che si interroghi sul sacro ed evochi, la prima moglie Margaret Mead e il padre, entrambi morti) forse compie l'ultimo tentativo, metalogando con la figlia, di ricomporre i pezzi della sua storia, per cocostruire, attraverso tre generazioni, un tessuto che abbia un nuovo “colore e calore,” quello di “una struttura che connette”, finalmente una difficile riconciliazione tra appartenenza alla dinastia dei Bateson e individuazione?
BIBLIOGRAFIA
l Gregory Bateson (1962) Introduction, in Bateson G, a cura di Perceval narrative:A Patient's Account of His Psycosis, 1830-1832, Hogarth Press, London.,(Tr.It. Perceval. Un paziente narra la propria psicosi, 1830-1832, Bollati Boringhieri 2005)
l Gregory Bateson (1972), Steps to an Ecology of Mind, Chandler, San Francisco(Tr.It.Verso un' ecologia della mente, Adelphi, Milano , 1976).
l Gregory Bateson (1979), Mind and Nature:A Necessary Unit, Dutton, New Yorck.(Tr.It. Mente e Natura, Adelphi, Milano, 1989.
l Gregory Bateson (1991) A Sacred Unity Further Steps to an Ecology of Mind, a cura di R.E. Donaldson, Harper Collins, New Yorck.(Tr.It. Una sacra unità.Altri passi verso un' ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1997).
l Gregory Bateson, M.C.Bateson (1987),Angels Fear Towards an Epistemology of the Sacred, Macmillan, New Yorck:paperbback ed Bantam, New Yorck,1988,(Tr,It. Dove gli angeli esitano. Verso un' epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 1989.
l J.Byng-Hall (1995) Rewriting Family Script, Guilford Press, New Yorck,
(Tr.It. Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico, Raffello Cortina, Milano, 1998.)
l David Lipset (1982), Gregory Bateson: Early Biography, in Brochman J. (a cura di) About Bateson.
l M.Malagoli Togliatti – A. Cotugno, (1996)Psicodinamica delle relazioni familiari,, Il Mulino.
l S.Manghi(1998) Attraverso Bateson , Raffaello Cortina, Milano
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Counseling – psicoterapia- therapeia: connessioni
In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante temibile materialità.
Michel Foucault
L'ordine del discorso
L'ordine del discorso:rituale e diritto al logos
Il tema l'ho volutamente introdotto alludendo al saggio di Michel Foucault L'ordine del discorso, il quale dimostra come gli esseri umani siano esseri nel linguaggio, con tutte le conseguenze che tutto ciò comporta, come vedremo. Aveva già osservato Gadamer, muovendo dall'ermeneutica del Novecento, il cui massimo esponente fu il filosofo M.Heidegger che la nostra intera esistenza è ermeneutica e quindi la verità è frutto di interpretazione che ne diviene sua dimensione costitutiva e che essere e linguaggio sono collegati Infatti il mondo viene concepito solo grazie al linguaggio:la lingua è un luogo che abitiamo, è “la casa dell'essere”.
Conseguentemente l'individuo è preso per così dire dal linguaggio con la sua impersonale trama di simboli e di significanti che lo costituiscono e che egli non ha creato, ma nella quale è piuttosto immerso, anzi, dominato attraverso complessi meccanismi sociali di controllo sulla comunicazione.
Già Marcuse aveva parlato della chiusura dell'universo del discorso
operata da quei meccanismi che limitano la potenzialità critica del linguaggio chiudendolo all'interno di significati stabiliti e controllati da chi detiene il sapere-potere .
Foucault farà, a sua volta un analisi dettagliata e profonda di questa tematica nel testo già citato, dicendo che il linguaggio istituisce dei condizionamenti, ma è esso stesso sottoposto a dei limiti, a precisi metodi di controllo, a procedure di esclusione, come se ci fosse “qualcosa di pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente “.
Che significa?
Significa che esistono determinate procedure consistenti in una serie di restrizioni che condizionano a loro insaputa i soggetti parlanti e che consentono quindi il controllo del discorso. Esse implicitamente sanciscono le condizioni che governano l'accesso al discorso , prescrivendo vere e proprie regole in modo che nessuno possa” entrare nell'ordine del discorso” se non è qualificato a farlo.
La forma più superficiale , ma quanto mai visibile anche all'osservazione della quotidianità di queste restrizioni è costituita dal rituale:esso definisce la qualificazione che devono possedere gli individui che parlano, determina i gesti, le condotte, i comportamenti, l'insieme dei segni che devono accompagnare il discorso insieme all'efficacia delle parole, l'effetto che devono suscitare su coloro cui sono rivolte, i limiti del loro valore costrittivo. Testualmente”I discorsi religiosi, giudiziari, terapeutici, e in parte quelli politici, non sono quasi mai dissociabili da questa utilizzazione di un rituale che determina per i soggetti parlanti sia proprietà singolari che ruoli convenuti”
Riferirò un esempio operante in tal senso che non credo abbia bisogno di troppi commenti.
Un counselor è stato denunciato per esercizio abusivo della professione di psicologo, art 110 e 348 del codice penale insieme ad uno psicologo in solido dalla IX Sezione Penale del Tribunale di Milano, l'11 giugno 2009.Alla condanna è seguito un trionfante comunicato stampa da parte dall'Ordine degli Psicologi della Lombardia.
La questione è semplice:il counselor non aveva diritto ad entrare nell'ordine del discorso ...terapeutico, in quanto non in possesso della qualifica necessaria, in quanto di specifica pertinenza del sapere-potere medico, in altri termini ha violato il rituale di foucaultiana memoria che ho sopra esplicitato.
Il counselor , dice il comunicato stampa di cui sopra, è reo di aver utilizzato un linguaggio specialistico, di cui vengono riportati alcuni brani definiti e connotati di contenuto clinico, che violano quel rituale.
Mi chiedo visto che la formazione dei counselor, in questo caso anche psicologo, si struttura presso Scuole di formazione gestite da psicoterapeuti, quale tipo di linguaggio avrebbe dovuto utilizzare se non quello congruo al suo contesto di apprendimento, sia come counselor che come psicologo.? In proposito ritengo auspicabile una chiara definizione dei titoli d'accesso alle Scuole di formazione, (in atto ritengo che ci sia un po' di confusione del tipo “nella notte tutte le vacche sono nere”...) l'aumento del numero di ore dedicato alla formazione oltre ad una legittimazione della professione, in modo che sia chiaro chi fa cosa e chi può entrare nell'ordine del discorso
Ma ritorniamo ai fatti in questione: l'episodio riportato privato dalla sua storicità contestuale definito nella specificità giudiziaria oltre che dal comunicato stampa fatto dall'Ordine degli psicologi già citato, impedisce una comprensione più esaustiva del medesimo, della vera posta in gioco, delle relazioni visibili e di quelle invisibili, funzionali a capire chi sta con chi e chi vuole cosa ….
Aleggiano pesantemente, però, in tutto il dispositivo che ha dato luogo alla condanna in solido dei due imputati psicologo-counselor(ma io direi che l'unico imputato è il counselor) i termini normalità – cliente, malattia-paziente quando è ben noto che dette nomenclature, sono obsolete ed artificiose perché sono solo costrutti e cioè, assunzioni logico ipotetiche funzionali alla previsione di fenomeni le cui relazioni non sono osservabili, ma deducibili dal costrutto adottato.
Anzi proprio la locuzione paziente tende ad essere obsoleta, soprattutto nel cosiddetto contesto psicoterapeutico, nel quale più spesso si preferisce utilizzare quella di cliente, termine introdotto da Rogers, com'è noto, diretto a restituire dignità ed autonomia al povero... paziente.
Di fatto un lungo percorso iniziato con Freud e proseguito con la fenomenologia, l'esistenzialismo l'antropoanalisi, l'epistemologia evolutiva di di K.Popper e Lakatos, che definisce tutta la conoscenza come congetturale e quindi ritiene che la scienza si evolve in funzione di nuove teorie che superano le precedenti in quanto forniscono una migliore e più vasta comprensione di determinati fenomeni, ha fatto si che i concetti di normalità -patologia, non si escludano più a vicenda, bensì vengano coniugati in chiave non più statica ma processuale.
Sappiamo che molti sono gli studi sulla patologia, sulla sragione direbbe Foucault, ma solo in tempi recenti sono iniziate ricerche sulla normalità, considerata implicitamente scontata e condivisa dal senso comune
Non è un caso che già nella Gestalt therapy la locuzione malattia si tende a sostituirla con quella di malessere e che”si può essere una famiglia , un individuo normale pur in presenza di un patologia”
Nel testo Clinica Sistemica , anziché usare la locuzione psicoterapia, significativamente si usa la locuzione consulenza, connotando così implicitamente la scelta di un approccio diretto a depatologizzare il paziente, a restituirgli dignità ed autonomia appunto come cliente.
Testualmente vi leggiamo”Innanzitutto, sbiadisce la distinzione tra normalità e patologia. E' necessario, casomai, tener conto delle inevitabili singolarità di ogni situazione umana, influenzata da variabili numerose, quanto impalpabili, una complessità che il terapeuta non potrà mai esaurire. La terapia diventa soprattutto creazione.....”
Per chi ha letto,” L'Epoca delle passioni tristi” certamente resterà indimenticabile Marc, il bambino superdotato, da adulto ricercatore universitario che diceva di essere l'imperatore di un fantomatico pianeta che si chiamava Orbuania. non era stato mai medicalizzato, né ospedalizzato in un reparto di psichiatria, né tanto meno etichettato.
Seguito dal prof, Benasayag attraverso una lunga relazione che egli stesso definisce”dieci anni di lavoro comune e di amicizia reciproca,” difficile quindi da connotare nel senso tradizionale terapeuta-paziente, proprio perché il primo aveva capito, che la realtà di Orbuania, non era espressione
di una credenza personale, bensì era nata e quindi esisteva in quanto esigenza, necessità che tale oggetto esistesse.
In altri termini, Benasayag aveva capito che Marc, proponeva di adottare , in ordine all'esistenza del suo Impero la “scommessa di Pascal” riguardo all'esistenza di Dio:il sintomo non era la persona , ma un suo modo di essere nel mondo, che poco ha a che fare con la medicina, e la malattia.ma ha a che fare con la therapeia, non certo con la terapia!
Il Prof. L. Boscolo , nell'ottica narratologica (la verità è insondabile e la vita si declina attraverso le attribuzioni di significato che noi assegniamo agli eventi e attraverso la narrazione di storie che raccontiamo a noi stessi e co-costruiamo con altri significativi, storie che mutano nel tempo .....perché tutto scorre e perché la vita è più vasta dei nostri pensieri) osserva che un problema psichiatrico si cronicizza allorché viene definito con la stessa diagnosi da tre psichiatri diversi in tre contesti consultati:”concetti come problema, psicosi, comportamento fobico, descrivono la relazione tra un osservatore e l'osservato.
Rispetto a un problema(patologia)diventa importante comprendere il significato relazionale(normalità)che coinvolge il paziente designato e il contesto in cui il sintomo assume significato”
Quanto detto per alludere, anzi per dire chiaramente come la penso, ( qual'è la mia epistemologia con la e minuscola direbbe Bateson e cioè la mappa cognitiva che guida la mia visione delle cose)che c'è ancora chi agisce la therapeia pur chiamandola terapia! Chi vuole capire capisca, pur continuando a pensarla come vuole.
Però dal momento che quest'articolo mi è stato ispirato dai fatti di Milano, per cui, pur non volendomi addentrare in questioni di merito perché mi mancano elementi sufficienti di giudizio, vorrei comunque trasversalmente affrontarli (cosa che in parte penso di aver già fatto)ponendo alcuni interrogativi, attraverso un excursus, culturale- linguistico-istituzionale in ordine all'uso di determinate locuzioni in Italia, confrontate con altri paesi europei oltre agli Stati Uniti d'America, che certamente faranno meglio riflettere sul significato reale di questa spiacevole vicenda, ma un po' sulla situazione di disagio in cui versano alcune professioni d'aiuto, in Italia, per una voluta mancanza di chiarezza.
Terapia – Therapeia :etimologia e ordine logico...
.Questa lunga premessa per argomentare sulle due locuzioni Counseling - Psicoterapia , counselor-psicoterapeuta che come abbiamo visto non si sottraggono certo al rituale di foucaultiana memoria e che quindi come vedremo si declinano all'interno dell'ordine del discorso che vige in Italia in un modo assolutamente diverso da altri paesi, in particolare quelli angloamericani, dove “una eventuale figura simile a quella del counselor, di professionista definibile in modo esclusivo come psicoterapeuta, rappresenta una fantasia esclusivamente italiana. Detto altrimenti in sostanza non esiste nel resto del mondo.”
A questo punto ritengo importante operare una digressione per così dire etimologica, viste le conseguenze epistemologiche e pragmatiche cui rinvia la locuzione terapia che nella nostra lingua d'uso appartiene ad un ordine logico di tipo peculiarmente medico, diverso da quello rinviato dal suo significato originario e cioè therapeia, da cui deriva e che sembra sia quello cui si faccia riferimento in gran parte del mondo, tranne l'Italia.
La therapeia, cosi come evoca il suo etimo originario, per chi ha una certa dimestichezza con la lingua greca, rinvia ad un prendersi cura, assistere, essere al servizio di qualcuno.
Il verbo greco Therapeuo presenta una ricca e complessa polisemia, infatti significa curare, servire, venerare, assistere, assecondare, coltivare , portare il frutto a compimento.
Therapon vuol dire ministro, sacerdote . Si rammenta che Omero appella Patroclo come therapon di Achille in quanto suo intimo amico, suo alter ego.
Inoltre, therapeuo rappresenta la traslitterazione greca della locuzione aramaica presente nella Bibbia qerapeu/w(la troviamo anche in Aristotele, Ippocrate, ecc.) In latino la therapeia diventa ministerium (servizio, aiuto ufficio. In inglese :cure, heal, worship e quindi ancora nel suo significato originario:servire, aiutare, accudire.
Infine, come ci ricorda il prof. Perussia ai cui affascinanti itinerari filologici ho attinto, rispolverando così, le reminiscenze legate alla mia formazione classica, therapeia deriva dal verbo thero- thersomai che significa riscaldo,divento ardente e da theros, calore, termine il quale allude a quella parte dell'anno, caratterizzata dalla presenza delle messi e cioè la primavera-estate ed infine peutho che vuol dire porto, annuncio. Così il significato originario, l'etimo di therapeia è dato dalla connessione , l'embricazione direi, tra thero-theros (calore) e peutho(annuncio, porto)
Da questa ricco e complesso simbolismo evocato della therapeia deriva il moderno intervento di counseling, meglio definibile secondo il professor F.Perussia come Formazione Personale, in quanto attraverso la therapeia si aiuta la persona a crescere , non nel senso di un apprendimento passivo ma attraverso un processo di trasfigurazione, che non é un in-printing, ma una crescita, come aiuto a ricercare e a sviluppare regole proprie idiosincratiche,descritte con una immagine icastica di grande vigore rappresentativo, testualmente “Non raccoglie frutti già maturi, ma ne produce di nuovi.”
Il contesto di questa bella metafora non può che declinarsi attraverso l'approccio psicologico di counseling che attraverso la Formazione Personale agisce i dettami originari della Therapeia, di cui ho già detto.
Con la locuzione psicoterapia propriamente, invece ci si riferisce ad un approccio diretto alla cura della malattia mentale, considerata una deviazione dalla normalità, definita a sua volta attraverso parametri ben precisi diretti ad identificare disfunzioni della fisiologia neurologico-mentale (diagnosi) funzionalmente ad una prognosi e quindi ad una cura attraverso dispositivi tali da consentire il ritorno alla normale fisiologia mentale.
La terapia... medica infatti, si riferisce alla malattia fisica (quadro nosografico)e quindi a quei dispositivi messi in essere dalla medicina per curare le malattie del corpo.
L'identificazione di una malattia, comporta che la cura deve essere condotta, applicata in maniera puntuale e precisa, deve esserne verificato il decorso e quindi l' efficacia dei dispositivi scelti, in modo da poterli eventualmente cambiare, sempre rispetto ad un obiettivo di guarigione .
La psicoterapia, come viene considerata di fatto sfugge a tali criteri , in quanto per lo psicologo è difficile diagnosticare con gli stessi criteri della medicina “applicando strumenti terapeutici specifici, definendo una prognosi, dei criteri oggettivi di valutazione e modificando le proprie azioni successive in base ai risultati”
Infatti come scrive R. Carli” a differenza della clinica sanitaria dove la domanda può essere accettata e validata dal medico, oppure rifiutata, perché incongrua rispetto al procedimento diagnostico e terapeutico, il vero sintomo del paziente è la domanda e come essa si presenta, si declina e si dispiega nel rapporto con lo psicologo stesso.”
Purtroppo, vige la confusione tra intervento psicologico e psicoterapia.
“Avviene infatti con una certa frequenza che una persona si rivolga allo psicologo per favorire la propria formazione personale e che lo psicologo definisca il proprio contributo professionale al riguardo come psicoterapia. Si possono identificare molte ragioni per tale curioso gioco delle parti , che incrocia convinzioni di natura genuinamente scientifica e filosofica con obiettivi di natura economica e corporativo sindacale”.
Anche qui chi vuol capire capisca!.L'ideologia, di marxiana memoria come falsa coscienza, impera nelle cose di questo mondo!
La Psicoterapia ...nel resto del mondo
Proverò a sintettizzare le lunghe e colte argomentazioni del prof.Perussia nel bell'articolo “Cum Sol:Immagini del counselor”che egli ha pubblicato qualche tempo fa nel Giornale di psicologia, e che ho già citato peraltro nel mio precedente articolo” IL Counseling in Italia:alcune considerazioni per una condivisione di senso”, in cui egli sottolinea (un informazione che probabilmente sfugge a molti) che in tutto il resto del mondo occidentale ci si riferisce a vari interventi di aiuto che si rivolgono alla persona nella sua soggettività e che cercano di affrontare il problema della salute mentale e del benessere psicologico. Ma in nessuna cultura a parte quella italiana si crede che tali interventi siano di pertinenza di una persona in particolare o di una categoria professionale esclusiva.
Nel mondo in genere non si fa una grande differenza tra counselor, psicologo, assistente sociale, psichiatra, psicoterapeuta, animatore , psicoanalista.:la differenza sostanziale invece è data dai titoli di studio, dalle attività di ricerca, dai contesti di riferimento, dalle richieste degli utenti .(se riflettiamo su quanto accaduto al malcapitato counselor,i titoli di studio posseduti e i suoi percorsi formativi non costituiscono qualifica di accesso all'ordine del discorso il cui rituale è stabilito dall'altro Ordine quello professionale degli psicologi... cui egli non appartiene e quindi nemmeno il suo discorso)
Il concetto di psicoterapia sia nei paesi di lingua inglese come nel resto dell'Unione Europea si declina in modo molto generico, tant'è che viene esercitata da molti professionisti come quelli su menzionati, che ovviamente pur agendo la therapeia e quindi pur prendendosi cura di qualcuno mantengono le loro qualifiche legate al titolo di studio conseguito, oppure sono iscritti ad un associazione come quella dei riabilitatori, degli animatori, degli psicologi, ecc...
Comunque la maggiore assimilazione tra denominazioni professionali è quella tra counselor e psicoterapeuta e tra l'altro nell'uso anglofono il counselor non è diverso dallo psicoterapeuta o da chi cerca di dare un consiglio o dall'orientatore .
Una tipica espressione anglosassone che rende bene l'idea è infatti “psychoterapists, counsellors and other members of the talking therapies (che vuol dire più o meno ...psicoterapisti, counsellor e altri membri che si occupano della terapia attraverso la parola)
Conseguentemente ci si riferisce alla psicoterapia in senso generico alludendo ad una modalità di approccio che può attenere alla competenza di molte professioni, che La agiscono secondo specificità diverse.
Nessuno pensa che un'attività siffatta possa rappresentare una competenza tecnica specialistica di un gruppo o di un associazione più o meno sindacalizzata.
In tutto il mondo conosciuto quando si fa riferimento al counseling o a un supporto psicologico, e o psicoterapeutico si allude al fatto che una persona sta agendo in un particolare momento un'attitudine terapeutica che non è codificabile nella categoria professionale di psicoterapeuta...in quanto ......testualmente “dimensione costitutiva di molte attitudini professionali non è una specie di titolo nobiliare o di cavalierato”.
Detto più chiaramente qualsiasi professionista appartenente alle professioni d'aiuto e o sanitarie è(psico)terapeuta, nel senso della therapeia, mentre si 'prende cura di qualcuno...e per ovvie ragioni, considerato che in ballo è ovviamente la psiche e non il corpo oggetto della scienza..stretto senso..
In nessun Paese esiste una legge che disciplini la “professione di psicoterapeuta “.
Inoltre nei paesi di lingua inglese la figura del cosiddetto “psicoterapeuta! è molto lontana da quello che noi intendiamo con questo appellativo, considerato che da noi una legge italiana prescrive che sia uno psicologo o un medico certificato in maniera specifica come psicoterapeuta.
Il termine angloamericano nella relativa lingua d'uso, che può essere assimilato al suddetto, utilizzato anche nella letteratura scientifica è quello di “shrink”,strizza(cervelli) con il quale si allude più alla figura dello psichiatra che a quella dello psicologo.
Infine, come dice il Prof Perussia nel mondo (quello civilizzato dico io, ...senza polemica) in genere gli ordini -corporazioni professionali non trovano posto, non esistono, d'altro canto essi sono vietati negli Stati Uniti, a difesa della democrazia e della concorrenza, basti pensare alle leggi antitrust.
A livello internazionale la figura dello psycoterapist, è rintracciabile nel fatto che l'uso di detto termine si riferisce spesso alla malattia mentale vera e propria e quindi la figura cui si attaglia è soprattutto quella di un medico o uno psichiatra:difficilmente sarà quello di uno psicologo.
Per concludere nelle rilevazioni di Eurobarometro, cioè della struttura di ricerca ufficiale diretta a rilevare le opinioni nell'Unione Europea , una categoria professionale separata di “psicoterapeuta”, tra i molti fornitori di servizi alla salute in genere e al benessere mentale in particolare non esiste(Eurobarometro 2006).
Infine, la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità a proposito degli stati ansiosi indica come modalità elettiva di intervento il counsiling psicologico che chiama “supportive therapy , mentre non cita alcun psicoterapeuta (né cita alcuna fantomatica psicoterapia) nel fondamentale documento relativo alle linee programmatiche di intervento nella cura dei problemi mentali.
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Il Teatro Elisabettiano e i contesti di cura:uno sguardo attraverso il pensiero vago
Quando due testi, due affermazioni,
due idee si contrappongono, divertirsi a conciliarle
anziché annullarle una attraverso l’altra, ravvisare
in esse due aspetti, due stadi successivi dello stesso fatto,
una realtà convincente appunto perché complessa,
umana perché multipla
Margherite Yourcenar
Qualcuno si chiederà cosa c'entra il Teatro elisabettiano con il pensiero vago e i contesti di cura e quindi il setting del counseling sistemico e / o della psicoterapia.
Vediamo di arrivarci passo passo attraverso la revisione dell' articolo:Il Teatro Elisabettiano e la sua Episteme, pubblicato nel novembre 2005 sulla rivista telematica Astratti Furori della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Catania.
Detta revisione, o per meglio dire rivisitazione, è stata operata attraverso un abduzione, metodo intellettuale che fu fondamentale nel pensiero Bateson e che si riferisce ad una "forma di ragionamento in cui una somiglianza riconoscibile tra A e B propone la possibilità di somiglianze ulteriori" che fanno nascere pensieri diversi.
Così, attraverso detto processo, la mia mente ha cominciato a vagare, agendo involontariamente (se così non fosse stato sarebbe stato improponibile e d'altro canto il titolo dell'articolo significativamente introduce questo tema) quelle pratiche fluidificanti del pensiero di batesoniana memoria, che potrebbero avere come cornice di senso questa metafora:”La più ricca conoscenza dell'albero comprende sia il mito sia la botanica”
Che significa questo incipit apparentemente bizzarro?
Con questo incipit si vuole alludere al pensiero di Bateson strutturato sul metodo della doppia descrizione, che giustappone il pensiero della narrazione tipico del mito, assimilabile al pensiero vago fondato sull'abduzione e sul sillogismo in erba e il pensiero scientifico assimilabile al pensiero rigoroso fondato sulla deduzione e il sillogismo classico detto in Barbara) .
.Egli vedeva nella loro combinazione uno strumento veramente prezioso per la scienza
Vediamo di fissare la differenza fra i due sillogismii.
Il primo sillogismo sotteso da queste concettualizzazzioni, appartiene a quello che Bateson definiva in erba, diverso dal secondo tipico della logica tradizionale detto in Barbara, fondato sulla classificazione...del tipo"Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo quindi è mortale"(Socrate è mortale in quanto facente parte di una classe i cui appartenenti condividono il medesimo predicato).
Il sillogismo in erba, invece, si fonda sulla connessione.
Celebre è l' esempio batesoniano, celebre anche perchè, a prima vista, sembra scardinare tutte le premesse della logica tradizionale, infatti recita così:"L'erba muore, gli uomini muoiono, gli uomini sono erba".
Il morire, qui, non esclude da una classe, nè include in una classe come il sillogismo in Barbara relativo a Socrate, ma è un predicato che collega due elementi presenti nelle premesse sillogistiche : l'erba e l'uomo quindi uomo e natura......
”So benissimo che i professori di logica classica disapprovano questo modo di ragionare........ma sarebbe sciocco prendersela con tutti i sillogismi in erba , perchè essi sono la materia di cui è fatta tutta la storia naturale e li si incontra a ogni piè sospinto quando si cercano le regolarità del mondo biologico”.. l'essere parte di una danza di parti interagenti.....
Al pensiero vago, evocatore di sillogismi in erba non si può ricorrere intenzionalmente, in quanto aleatorio, inintezionale e per questo produttivo, generatore di nuovi pensieri, suscitatore , come tale e più facilmente di risposte prima ignote e quindi creative.
Esso, infatti agisce come correttivo della finalità cosciente, derivante dall'artificio dell'intelletto e della sua hybrys mentalistica, attraverso l'amore, le arti figurative, la religione, la poesia, le lettere, il contatto con la natura e con gli animali.
In particolare rispetto a quest'ultimi, sottolinea Bateson, che essi si comportano e comunicano con naturalezza, a differenza dell'uomo corrotto dall'inganno, perfino contro se stesso, dalla finalità e dall'autocoscienza, l''uomo ha infatti perso la grazia che gli animali ancora possiedono.
Norbert Wiener, per esempio, quando doveva affrontare un problema impegnativo di matematica o di ingegneria si sedeva davanti a una tenda agitata dal vento o guardava i movimenti dell'acqua e di altre cose.
Quei movimenti, gli riempivano gli occhi , mantenendo il suo cervello in movimento,in un maniera vaga non specializzata, attraverso cui i pensieri privi di un nesso logico di tipo grammaticale, quindi...perchè ecc...generavano, anziché chiudersi, altri pensieri.
Questa lunga premessa per dire che quest'articolo è dedicato a chi ama il teatro, a chi in particolare è curioso di conoscere alcuni temi che hanno caratterizzato il teatro elisabettiano, a chi ha una mente eversiva del tipo...come ha detto Shnerwood Anderson in Winesburg, Ohio “Chiunque adori una verità diventa grottesco”.
Ancora, proseguendo su questa scia, a chi non crede alle costruzioni della causalità lineare, anzi, ritiene che il linguaggio non è la realtà, a chi è fantasioso ed utilizza più spesso l'emisfero destro, quello psicotico, la parte non analitica, olistica della nostra corteccia cerebrale, per intenderci,a chi utilizza l'abduzione e il sillogismo in erba del pensiero vago, ma lo sa anche combinare con il pensiero rigoroso ed è quindi disponibile ad attraversare territori impervi, come si addice a chi deve affrontare contesti di cura o del prendersi cura.
Alla fine, spero, che chi legge questo mio scritto, possa attivare il suo pensiero vago per generare altri pensieri.
Ma ritorniamo a questo Teatro Elisabettiano misterioso e affascinante che come vedremo per la sua peculiare incompiutezza è depositario di una molteplicità di significati potenziali, che insieme ad alcune caratteristiche sue proprie, mi ha suggerito, attraverso le indicazioni dell'emisfero destro, alcune giustapposizioni, nel senso che espliciterò durante la mia narrazione, più esattamente sillogismi in erba, tra lo storico del teatro, il terapeuta o counselor, il setting del teatro elisabettiano e il setting dei contesti di cura .
Così, introdurrò il tema, intrecciandolo con alcune parti significative, per poi passare ad una seconda parte, in cui attraverso la narrazione-descrizione del genogramma, tecnica utilizzata nell'approccio sistemico, mutuerò, ancora, isomorfismi con la storiografia elisabettiana.
Ma procediamo per ordine, andiamo al mio Teatro Elisabettiano,
L’espressione “Teatro Elisabettiano”, viene usata in senso lato dagli studiosi per alludere ad un fenomeno culturale sostanzialmente omogeneo, che iniziato nel 1576 , dopo aver attraversato sia il regno di Elisabetta I, che quello di Giacomo I Stuart , figlio della sfortunata Maria Stuarda (1603-1625)sia infine quello del di lui figlio Carlo I Stuart ,(1625-1649) si concluse con la decapitazione di quest’ultimo in piena guerra civile e con il Commonwealth del puritano Cromwell e quindi con la chiusura dei teatri il 2 settembre 1642, per volere del Parlamento.
Non sarà facile parlare del” teatro elisabettiano, per la complessità dell’argomento che il troppo poco spazio riservato ad un articolo non potrà certamente contenere esaustivamente, per cui si cercherà di fissarne alcune aspetti significativi, con l'obiettivo introdurre alcune analogie con i contesti di cura e o del prendersi cura..
Innanzitutto, notevoli sono le difficoltà che incontrano gli studiosi rispetto alla identificazione di fonti e documenti attraverso cui ricostruire sia la forma dei teatri elisabettiani che le modalità della messinscena, mediante un’approccio corretto, che ne identifichi l’episteme, senza sovrapporre modelli culturali estranei all’età elisabettiana.
Ma cosa intendiamo per episteme?
L’episteme rappresenta, quell’apriori storico che solo nel suo essenzializzare i codici fondamentali di una cultura consente allo storico lo studio dell’oggetto spettacolo del passato, ricostruito, appunto, attraverso il relazionamento con altri oggetti appartenenti al medesimo contesto culturale (la stessa episteme)
Questa connessione “tra oggetti”, come dice J.M. Lotman appartenenti alla stessa “semiosfera,” diventa operazione prioritaria per lo storico, nel tentativo di colmare le carenze documentarie legate al fatto incontrovertibile di doversi accostare allo spettacolo teatrale…. di un passato remoto fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la cui ricostruzione, deve essere condotta in assenza dell’oggetto per sua natura…impermanente …
Un analogia mi viene subito in mente ed è la seguente:nei contesti di cura e/ o del prendersi cura per il il terapeuta e /o counselor nel momento che utilizza un approccio diretto all'applicazione del genogramma, ovvero la rappresentazione dell'albero genealogico, per identificare le relazioni tra i membri di una famiglia nel suo declinarsi almeno attraverso tre generazioni, non trova forse le medesime difficoltà dello storico elisabettiano?
:La connessione tra oggetti appartenenti alla stessa semiosfera guidata dall'operatore storiografo non sono forse metafora di un irrepetibile spettacolo di altre vite fatte della stessa soistanza di cui sono fatti i sogni e rivisitati attraverso la memoria emotiva,quello che resta quando si è dimenticato tutto dell'albero genealogico, quindi i codici fondamentali di quella cultura familiare?
Esso parla attraverso i suoi vuoti, i suoi spazi bianchi i suoi lapsus ,le sue confusion...
Gli strumenti documenti per comprendere i punti nodali di una storia .non sono forse rappresentati dal linguaggio che ogni paziente utilizza nella costruzione dell'albero in tutti i suoi aspetti lessicali, sintattici, metaforici, evocativi....come...la ripetizione di un vocabolo, la punteggiatura di un racconto, la struttura dei periodi, la prosodia, il modo preciso o confuso con cui sono evocati i ricordi, l'uso di determinati vocaboli, che hanno un significato non solo lessicale, ma soprattutto semantico e solo per quella famiglia?
Il terapeuta e/ o counselor, deve aver già esplorato la propria famiglia interiore e quindi non proiettare codici interiori estranei a quella data cultura, senza per questo, perdere di vista la comunanza di specie e di destino con l'altro nella sua unicità, perchè, come dice Vittorio Cigoli, il volersi sentire troppo dominatori rispetto al proprio sapere, apre la via all'allontanamento dall'altro e il dialogo declina verso la menzogna.
E i teatri elisabettiani, di cui è difficile ricostrure la forma, non evocano attraverso l'aiuto del terapeuta-counselor, forse, il topos struggente dei ricordi e cioè di quei luoghi della vita familiare, come per esempio, la casa dell'infanzia, la casa dei nonni, la casa delle vacanze, magari demoliti, venduti,ereditati da altri, inesistenti nella loro materialità, rimasti vivi,però, nella memoria, perchè narrati da altre figure significative e cioè, nonni, genitori, zii?
Tante volte la descrizione è solo il prodotto della memoria emotiva, che ha investito quei luoghi di valenze simboliche che sono solo significanti, non perchè reali, ma veri nel loro essere spazi di ancoraggio della memoria familiare, incaricati di rappresentare riti e miti di quella particolare famiglia:” ogni cosa è testimonianza delle differenti tappe di costituzione della famiglia nel corso di una o più generazioni” .
Quanto poi all'episteme, essa non è forse rappresentata dall'identificazione dello apprendimento di un determinato schema relazionale, attraverso le vicende delle generazioni precedenti?
Questa visione attraverso le generazioni, che si intreccia e si embrica con la propria storia, rivissutà in quell'orizzonte di continuità tra le medesime, proposto dal genogramma, non dischiude forse, un'orizzonte verso la comprensione (verstehen) di maniere di essere che ci abitano inconsapevolmente e che costituiscono la trama e la connessione tra noi e le generazioni che ci hanno preceduto e dalle quali siamo parlati? ( parte danzante di una danza di parti interagenti, direbbe Bateson)
Tutto ciò non restituisce un senso alla sofferenza ed aiuta a ridemensionare l'ansia di essere totalmente responsabili delle vicende della propria famiglia ?
Certamente la storiografia francese delle “Annales” con la sua identificazione del fatto storico come oggetto costruito dallo studioso, ha rappresentato una fondamentale rottura epistemologica rispetto ad un corretto approccio al fatto teatrale e ai pericoli del feticismo documentario.
Aggiunge il prof. M.De Marinis e quante volte ….”non dato, ma creato dallo storico- e quante volte? Inventato e fabbricato per mezzo di congetture, per mezzo di un lavoro delicato e appassionato."
Non somiglia forse l'operatore dei contesti di cura e o del prendersi cura allo storiografo elisabettiano, che per raggiungere l'oggetto teatro tanto lontano e in presenza di una documentazione frammentaria e lacunosa, deve certamente ricorrere all'abduzione e ai
sillogismi in erba tipici del pensiero aleatorio, produttivo di altri pensieri :e quindi all'ipotizzazione sistemica, come plurima descrizione di variegate e molteplici ipotesi.?
L’approccio alla complessità, richiede quindi una estrema cautela contro ogni idolatria documentaria, cosa che la nuova storiografia teatrale sta facendo, attraverso una ridefinizione epistemologica dello statuto teorico del documento, considerato alla luce delle indicazioni di studiosi come M.Foucault, Le Goff, Zumthor.
Iniziata da L. Febvre e Bloch la critica al documento, proseguita da Zumthor che per primo parla del documento come “monumento”, approfondita da M.Foucault nel suo celebre, L'archeologia del sapere”, viene riproposta da J. LeGoff, il quale indica come primo dovere dello storico,la critica del documento,qualunque esso sia.in quanto monumento”
“Il documento è monumento. E’ il risultato dello sforzo compiuto dalle sociètà storiche per imporre al futuro –volenti o nolenti- quella data immagine di se stesse.
Al limite, non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. sta allo storico non fare l’ingenuo.”
Per analogia il documento monumento potrebbe essere rappresentato da quelle pieghe della memoria, che durante la compilazione del genogramma servono a nascondere i pacchetti, i segreti, come sforzo compiuto dalle generazioni precedenti di mantenere una determinata immagine del sistema familiare. Vediamo come e perchè.
Che cosa sono i pacchetti e i segreti?
I primi hanno determinate caratteristiche e cioè si riferiscono ad un momento significativo della vita familiare: essi sono stati consegnati da un membro importante della famiglia, con la regola ferrea ed implicita che non può essere data nessuna spiegazione realistica circa il contenuto; i secondi sono connessi sempre ad un divieto, in genere riguardante fatti di natura morale, come tali soggetti al silenzio, perchè legati ad eventi o a personaggi non rispondenti al mito o alla bandiera familiare, ma in genere incoerenti con la sua storia reale.
Ma l'abillità dell'operatore sta , come quella dello storiografo, nel riuscire a far si che il segreto, e o il pacchetto monumento,vengano fuori nel corso del genogramma, in modo da “costringere” il cliente ad aprire il pacchetto e o ad esplicitare il segreto, per liberarne il significato spesso doloroso e quindi ristrutturarne il senso, perchè la sua maniera di essere nel mondo possa ancorarsi ad un migliore progetto di vita.
ll Teatro:docere delectare movere, o....?
Daumier- Spettatori a teatro
Da sottolineare che il Teatro era terreno di pesante scontro ideologico e non a caso i teatri pubblici elisabettiani furono costruiti fuori dalla cerchia delle mura e della giurisdizione della City,in luoghi detti “liberties”
:Come dice Loretta Innocenti erano”spazi di esilio e di licenza, di libertà carnevalesca nei confronti del potere e della cultura dominante, luoghi marginali del piacere e del divertimento”.
Le liberties rappresentavano quello spazio di esclusione che si oppone alla cultura,ma che rappresenta ad un tempo il proprio tipo di caos selezionato e creato dalla stessa cultura, non casualmente.
Restano in tal senso memorabili le polemiche contro la finzione teatrale, definita pericolosa (conclusasi con la chiusura dei teatri) perché nel suo spingere perlocutoriamente all’azione, attraverso quel senso potente e immediato che è la vista, corrompe l’anima degli spettatori ed innescando, inoltre, un diabolico meccanismo di identificazioni e di proiezioni, crea liminalmente pericolose derubricazioni della realtà.
Un vero e proprio Male Assoluto!
Riferisce Loretta Innocenti, che nel Rinascimento inglese i detrattori del teatro vedevano come pericolosa l'influenza della finzione teatrale, in quanto operava come la lebbra, che secondo certe teorie mediche poteva addirittura essere trasmessa attraverso la vista. . Così il teatro era provocatore di un contagio, corruttore dell'identità ed in particolare , poiché le parti femminili venivano assunte da giovani di sesso maschile, alcuni trattati antiteatrali sottolineavano il fatto che la finzione teatrale rendeva effeminati o spingeva additittura ad assumere l'identità dell'altro:di fatto una polemica tra ragione e sragione!
Non possiamo non pensare ai manicomi nel primo Novecento e al loro essere, come le liberties, significativamente dislocati nelle periferie delle città.
Ex Manicomio psichiatrico di Volterra 1883
Inoltre, molto prima, durante il Rinascimento, il tema dell'esclusione e dell'opposizione alla ragione non era forse rappresentato dalla Nave dei folli, emblematico stichwort, parola simbolo del rapporto tra ragione e sragione creato dalla stessa ragione? Ma cos'era la Nave dei folli?
Era il Narrenschiff, uno strano battello ubriaco,che navigava durante la prima metà del XV secolo, attraverso i fiumi della Renania e i canali fiamminghi e che trasportava un carico di insensati da una città all'altra.
I folli avevano un esistenza vagabonda,in quanto la città li emarginava, magari in campagne lontane dei centri abitati, oppure li affidava a mercanti o a pellegrini.
Sembra, che queste navi dei folli, che hanno ossessionatio l'immaginazione nel Primo Rinascimento, siano state navi di pellegrinaggio altamente simboliche di insensati alla ricerca della loro ragione.
Ma la loro ragione non l'hanno certo ancora trovata,.considerato che la chiusura dei manicomi, con la legge Basaglia del 1978, non ha risolto granchè in ordine all'approccio alla cosiddetta malattia mentale, ed anche, se certo non è auspicabile la loro riapertura , essi oggi sono dislocati presso altre liberties, sopravvivono, in altri termini, sotto mentite spoglie in una forma meno visibile....ma non per questo meno drammaticamente vera.
Adesso ritorniamo al nostro teatro .e alle polemiche, che poi portarono alla sua chiusura nel 1642.
Il teatro elisabettiano aveva i suoi detrattori, ma anche coloro che lo difendevano strenuamente, come alcuni studiosi del tempo tra cui Heywood che attribuiva ad esso una capacità trasformativa, in grado di educare gli spettatori verso una vita più piena e creativa.
Sidney, a sua volta, identificava l'effetto persuasivo del teatro e cioè il moving, suscitatore di forti emozioni, come mezzo diretto a finalità didattiche.
Richiamava anzi i vecchi concetti della retorica classica e cioè il movere, il delectare, e il docere, che rendevano positiva ed accettabile detta esperienza, in quanto connotava l'immedesimazione solo come consapevole ricezione di un exemplum.
Queste tre varianti semantiche sono presenti nei contesti di cura,come vederemo, però muta o perlomeno dovrebbe mutare la cornice semantica e la finalità in quanto caratterizzata da un setting strutturato e condiviso all'interno di una domanda d'aiuto. Questo setting, però, anche se ciò non è auspicabile, può anche declinare verso la manipolazione dell'altro, come quel teatro ad alto coinvolgimento emotivo che era quello elisabettiano, con le sue grandi figure epiche, grandi nel bene e nel male, da Macbeth, a Lear ad d Amleto, che per i suoi detrattori corrompeva l'anima degli spettatori.
Ma vediamo da vicino brevemente alcuni aspetti o per meglio dire alcune caratteristiche di questa episteme e cioè quelle relative alla messa in scena, al pubblico e all'utilizzazione del teatro da parte del potere.costituito e cioè di Elisabetta prima d'Inghilterra
La messa in scena
Riguardo alla prima, una caratteristica peculiare era data dal suo totale desituarsi dalle unità aristoteliche di tempo luogo e azione, accanto all’affascinante quanto magica mescolanza di comico e tragico, tanto caro ai drammaturghi inglesi, che già si era visto nel teatro medioevale dei mystery e dei morality play.
Quante volte il terapeuta e o il counselor, devono alleggerire la tensione, laddove sono presenti gravi problematiche,con interventi diretti ad allargare la prospettiva della responsabilità individuale, restando nel tema del genogramma, facendola risalire ad un processo plurigenerazionale e transgenerazionale, che, come dice Bowen, in genere rinvia ad una carente differenziazione del sé nell'ambito familiare.e a gravi problemi di invischiamento, quando non vengono rispettati, appunto, i confini intergenerazionali.
Il teatro elisabettiano, come abbiamo già detto, inscenava spesso l’improvvisazione, l’invenzione, infatti il commediografo professionista rinunciava ad ogni diritto all’opera nel momento in cui la vendeva alla compagnia, che poteva anche curarne la pubblicazione e venderla ,una volta che cessava l’interesse del pubblico rispetto alla visione teatrale.
Quindi la teatrologia elisabettiana , dove il dramma esisteva in quanto rappresentazione, non era considerabile opera letteraria da connettere ad un copione o a un libro pubblicato, in quanto per l'elisabettiano esso era un avvenimento concreto, l'opera messa in scena a cui partecipavano attori e pubblico Una profonda, partecipata e spontanea immersione nello spettacolo da parte del pubblico
Tutto ciò non evoca forse i contesti di cura, dove sul canovaccio portato dal cliente si co-costruisce insieme all'operatore,la cosiddetta analogia narrativa, “ la vita come testo narrato?”
Il Setting del teatro elisabettiano e la quarta parete
Roma:il Globe Theatre ricostruito a Villa Borghese
Ma l’aspetto certamente ancor più singolare ed affascinante di questo teatro è rappresentato dalla realtà di un palcoscenico che si protendeva verso la platea, in uno spazio concettuale, simbolico, senza la quarta parete.del proscenio, che oggi separa la scena dal pubblico e quindi il momento della finzione da quello della realtà.
La quarta parete, tra l'altro, è stato argomento del teatro di Pirandello e famoso è rimasto in tal senso il teatro laboratorio di Grotowski, che mescolava nelle sue celebra messa in scena attori e spettatori al fine di elidere lo spazio della finzione separato da quello della realtà
Il dramma elisabettiano, in cui erano presenti grandi figure epiche,(da Amleto a Macbeth a Re Lear) non si avvaleva delle regole delle tre unità aristoteliche, come ho già detto, anzi era costantemente aperto alla relazione, alla comunicazione,
Il palcoscenico significativamnete inglobava attori e pubblico.
Gli attori vivevano i loro ruoli come intrecciati, embricati con il pubblico con il quale erano in costante interazione.
Il pubblico era rumoroso, partecipava attivamente allo spettacolo, interveniva controbattendo gli attori e discutendo sulle situazioni sceniche, mangiava,(venivano offerte arance, mele,noci e birra) beveva, fumava e faceva persino all’amore.…
In altri termini il pubblico era chiamato a partecipare attivamente allo svolgimento del dramma, affinchè il pensiero fantastico potesse essere humus per una trasformazione alchemica in vita vissuta, e non sterile finzione
Non esisteva un sipario, non avvenivano veri e propri cambiamenti di scena, in quanto la scena elisabettiana era metaforica, simbolica, perchè alludeva a ciò che non era visibile. Essa,Infatti, laddove non era possibile ricorrere a cambiamenti di scena, si esprimeva attraverso il linguaggio sineddochico, dove poche elementi rinviavano al tutto,
Questa scena, come meglio vedremo nella seconda parte di questo lavoro, non può non rammentarci l'altra scena, quella giocata nella rappresentazione del genogramma, anch'essa essenziale, dove pochi elementi rinviano al tutto di quel particolare sistema familiare plurigenerazionale.
La risposta del pubblico elisabettiano era ad alta e complessa partecipazione, infatti l'illusione drammatica non era mai totale, al punto che Bethell la definisce multicosciente.
Non a caso la presenza in scena dei ragazzi che recitavano le parti femminili spesso veniva marcata come incongrua, in modo da far apparire l’attore dietro il personaggio.
Inoltre, attraverso la presenza di attori adulti accanto ai giovani con i riferimenti metatreatali nel testo e nelle inductions (cornici diegetiche che introducono a mo’ di prologo l’azione principale del dramma)si sottolineava l’artificialità della situazione.…..Si alternavano quindi momenti verosimili a momenti non illusionistici dove il falso è osteso
.Quante volte, nel corso degli incontri, l'ostensione del falso è il momento metacomunicativo in cui l'operatore chiarisce al cliente aspetti impliciti e non verbali emersi durante il colloquio, diretti a mettere in contatto con il proprio sè il cliente:il tutto affidato alla relazione emozionale tra quest'ultimo e l'operatore e alla forza della co-costruzione di una narrazione, che possa essere humus per una trasformazione alchemica verso una vita più integrata e soddisfacente. Basti pensare al disvelamento dei pacchetti e dei segreti - monumento, di cui abbiamo detto.
Il Teatro e il potere..
Elisabetta non aveva un esercito e nemmeno una rudimentale burocrazia, per cui il suo potere era soggetto a continue negoziazioni.
Riusciva a mantenere il trono, dedicandosi alle arti della persuasione, dirigendole verso l’ardua e costante venerazione del Corpo politico.
Il potere regale dipendeva dalla sua visibilità privilegiata, come l’ha definita Stephen Greenblatt, d’altro canto la stessa Elisabetta aveva detto al pubblico dei Lords e dei Comuni……”Noi principi stiamo sul palcoscenico, sotto gli occhi del mondo intero.” Non a caso, nelle sale teatrali vi era un’area mediana rappresentata” da un sontuoso baldacchino occupato dal re che diventava emblematicamente e fisicamente centro e vertice gerarchico di coloro che lo circondano”
Come dice M.Foucault”tradizionalmente il potere è ciò che si vede, ciò che si mostra, ciò che si manifesta e, in modo paradossale, trova il principio della sua forza nel gesto con cui la ostenta”
Il potere tanto icasticamente rappresentato da Foucault ,attraverso il gesto con cui lo ostenta, mi fa immediatamente pensare, al potere del linguaggio e ai metodi di controllo cui esso è sottoposto e cioè le procedure d'esclusione che consistono nel fatto che “in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure,che hanno la funzione di scongiurararne i poteri e pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la pesante temibile materialità”
:Infatti il folle è colui il cui discorso non ha diritto di circolare, se non attraverso una serie di filtri, quali la competenza dell'esperto, strumenti diagnostici e tutto un insieme di pratiche.specialistiche, senza le quali è sottoposto al rigetto.
Wite , non a caso, ritiene che i discorsi sulla salute mentale hanno sul vissuto dei pazienti un forte potere suggestivo e prescrittivo, soprattutto nelle pratiche legittimate quali esclusione e reclusione. Egli dice, inoltre, che attraverso la diagnosi, vero strumento di invalidazione dell'altro, si strutturano identita acquisite, creando stigma ed etichettatura.
Pensiamo a cosa accade nelle scienze sociali rispetto all'uso del linguaggio e al fatto che esso, come dice Thomas Szasz, riveste tre funzioni principali:trasmettere informazioni, indurre stati d'animo, provocare azioni.
A differenza delle scienze fisiche in cui il linguaggio è descrittivo ed utilizza il registro della spiegazione, diretto a dire come sono le cose, il linguaggio nelle scienze sociali è usato non solo in senso descrittivo ma anche promotore, (direi perlocutorio) diretto a dire non solo come sono le cose, ma anche come dovrebbero essere. La mancanza di chiarezza, quando il linguaggio viene usato per influenzare la gente, è funzionale all'uopo.
Sempre T: Szasz , a mio avviso, giustamente afferma che le scienze sociali e fra esse la psichiatria si dedicano allo studio di come la gente si influenza reciprocamente, conseguentemente l'uso promotore del linguaggio diventa fondativo nelle osservazioni utilizzate.
Ma dette scienze non hanno un idioma specializzato loro proprio, in quanto esse fanno uso del linguaggio comune,che è ovviamente impreciso e quindi si presta ad uso di tipo promotore..
Così le descrizioni psichiatriche e sociologiche utilizzano affermazioni promotorie camuffate da asserzioni cognitive.
In altri termini, mentre pretendono di descrivere una condotta , gli psichiatri spesso la consigliano.
Chiamare una persona malata mentale, ne è un esempio:afferma e sottintende che il suo comportamento è inaccettabile e che dovrebbe comportarsi in maniera diversa, cioè più accettabile”
Szatz osserva, e ciò mi sembra molto interessante, che la psichiatria, considerato il fatto che la sua competenza riguarda la condotta personale e il controllo sociale, non le malattie del corpo e il controllo medico, dovrebbe ridefinire e rielaborare le sue teorie e le sue pratiche in una struttura e in un linguaggio morali e psicosociali.
Tutto ciò potrebbe evidenziare le differenze fra uomo sociale e uomo biologico anziché le loro somiglianze.
L'approccio sistemico, ma non solo, tanto per citarne uno che mi riguarda sta tentando di fare tutto questo e da parecchi anni.
Non è un caso, che Bateson fosse molto diffidente rispetto al tentativo di fare scienza sociale applicata,.
Al fasto della corte elisabettiana sulla scena teatrale, suggestivo, seduttivo e prescrittivo, quì troviamo l'altro fasto altrettanto suggestivo, seduttivo, prescrittivo, quello della parola manipolatrice , ma non è certo questo il caso dei contesti di cura e /o del prendersi cura , dove è necessario ed auspicabile aver acquisito già un modo di essere e di sentirsi parte danzante di una danza di parti interagenti, quello dell'estetica della relazione,della conoscenza per sensibilità ,di batesoniana memoria .
Ora passiamo alla seconda parte, in cui svilupperò meglio alcuni temi quì già introdotti , utilizzando sempre il metodo dei sillogismi in erba e cioè delle connessioni, delle giustapposizioni con la storiografia elisabettiana
1985 J .M. Lotman.,La semiosfera ,Marsilio , Venezia
1997 Marco De Marinis,Capire il teatro, pag 42 ,ed Ponte alle Grazie, spa Firenze,
drammi sacri caratterizzati i primi da temi tratti dalla Bibbia e gli altri sorti tra la fine del quattrocento e gli inizi del cinquecento da motivi tratti dalla danza macabra e dalla tradizione dell’omelia e dell’Ars Moriendi, rappresentano in particolare la lotta tra il bene e il male per la conquista dell’anima umana)
Ricostruire i testi :il modello elisabettiano e la storiografia del genogramma
In una famiglia i bambini e i cani sanno tutto, sempre e soprattutto quello che non viene detto.
Francoise Dolto
Dopo questa lunga introduzione narrativa, vediamo di procedere verso quella rotta, quella struttura che connette, parafrasando il pensiero di Bateson ,dal quale ho tratto spunto, me, la mia epistemologia con la e minuscola, e cioè le mie abitudini di pensiero, lo storiografo del teatro elisabettiano, i contesti di cura e /o del prendersi cura, il cliente- testo -attore-spettatore da un lato e tutti e cinque con la mia formazione sistemico-relazionale, la mia passione teatrale per quel teatro, la mia storia familiare, Counseling italia e tutti coloro che leggendo quest'articolo sentiranno il loro pensiero vago pronto per altre abduzioni. Vediamo cosa accade nei contesti di cura e o del prendersi cura e cioè, come il terapeuta e /o counselor, nell'ottica costruzionista si accosta alla domanda del cliente e come questo setting è giustapponibile per alcuni aspetti a quelllo dello storiografo che studia e interpreta i testi del teatro elisaabettiano.
Come dice R.Carli ,” a differenza della clinica sanitaria dove la domanda può essere accettata e validata dal medico oppure rifiutata perché incongrua rispetto al procedimento diagnostico e terapeutico, il vero sintomo del paziente è la domanda, e come essa si
presenta, si declina e si dispiega, nel rapporto con lo psicologo stesso.”
Che significa?
Significa che quella domanda che porta il cliente, spesso è solo un canovaccio, in cui sono impressi alcuni segnali che rinviano ad un disagio, ad una sofferenza che si è come irrigidita nel tempo e che chiede all'operatore di essere ri-narrata, magari allargando il contesto storico di quella trama , per un finale diverso.
Gli scenari, che hanno fatto da sfondo a quel disagio a quella sofferenza sono spesso imperscrutabili, perchè l'orizzonte di una storicità intergenerazionalegene, come vedremo, non può che creare aree di illusione e di confusione, come gli scenari teatrali elisabettiani, lontani e impermanenti, fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni
Cosa deve fare l'operatore terapeuta – counselor - storiografo, se non trasformare quel canovaccio in un testo per una rappresentazione, per una messa in scena in unsetting essenziale, affidato alla forza rappresentativa che l'utente attore, ma anche spettatore e l'operatore co-costruiranno insieme.
Un contesto di cura e o del prendersi cura che si attaglia alla storiografia elisabettiana per somiglianza è quello condotto attraverso il genogramma, assimilabile, a mio avviso, al pensiero della narrazione, tipico del mito e che rientra come tale nel pensiero vago, di cui ho detto in premessa, sceneggiato e giocato sull'asse trigenerazionale.
Il genogramma in genere è uno strumento utilizzato nella formazione dei terapisti, nel corso di una terapia familiare o di coppia
La prospettiva storica del genogramma permette di fare in un certo senso archeologia, ma anche epistemologia in quanto aiuta a scoprire l''Apprendimento” di un determinato “schema relazionale”, attraverso le vicende delle generazioni precedenti.
Qui la nozione di apprendimento è da riconnetersi all'epistemologia di G..Bateson, che definiva il cosiddetto apprendimento due o deuteroapprendimento una maniera di segmentare l'esperienza e quindi di strutturare determinate abitudini mentali, attraverso sequenze di relazioni apprese nell'ambito familiare:esso è inconscio e come tale inestirpabile.
Cos'è il genogramma?..
Secondo la definizione di Vittorio Cigoli”un'unità organizzata di relazioni tra elementi, azioni e individui da luogo ad un sistema.” Una famiglia plurigenerazionale può essere assimilata a un sistema, appunto per questo definibile, non più albero genealogico,( evidenzia situazioni modificabili solo da accadimenti anagrafici, che lasciano immutata l'appartenenza) ma genogramma, in quanto è una forma di rappresentazione dell'albero genealogico che registra informazioni sui membri di una famiglia e sulle loro relazioni nel corso di almeno tre generazioni..(si ritiene che sia sufficiente la considerazione dei tre livelli generazionali e quindi le tre generazioni contemporaneamente in vita e cioè nonno, genitore, figlio.).
Nel bellissimo libro ”La sindrome degli antenati”, contrassegnato nell'incipit da un pensiero di Sant'Agostino che recita significativamente così ”I morti non sono assenti, sono esseri invisibili”, Anne Ancelin Schutzenberger, in quello che Lei definisce genosociogramma, cioè, una rappresentazione sociometrica affettiva transgenerazionale in forma di albero genealogico familiare, ricostruisce il passato, retrocedendo, addirittura di due secoli, da sette a nove generazioni.
Pare, come dice la medesima, che il genogramma sia nato dalle riflessioni sui legami familiari complessi e sull'atomo sociale che è il mondo personale e familiare del cliente, elaborate da Moreno.
Il genogramma mette in evidenza graficamente le informazioni della famiglia, in modo da offrire una rapida visione di insieme dei complessi patterns familiari.”
Esso è desituato dalle dalle famose unità aristoteliche, ovviamente, perche la memoria emotiva ripercorre ricordi sensazioni, emozioni, attraverso libere associazioni, che non possono rispettare quelle regole..
Anzi, la memoria diventa una struttura speculare, in cui si intrecciano e si embricano in una interazione costante passato presente e futuro.
Pochi elementi simbolici ,per esempio il quadrato rappresenta la persona di sesso maschile, mentre il cerchio quella di sesso femminile, rinviano al tutto.
Quindi, una scena scarna, essenziale, sinnedochica, come quella elisabettiana, vero reperto archeologico, in cui l'operatore- storiografo interpreta il complesso reticolo di sistemi segnici, necessario a colmare le carenze documentarie e l 'impermanenza di scene familiari del passato, fatte della sostanza di cui sono fatti i sogni.,(la semiosfera di Lotman) che caratterizzano quella cultura familiare, nelle sue varie maniere di essere nel mondo.
Quest'approccio consente di verificare le differenze tra culture familiari diverse, che sole, come dice Margaret Mead, consentono la comprensione della diversità,.
Ida Magli osserva, a sua volta, come “l'antropologia ha profondamente influenzato in Francia il metodo storico, facendo emergere a dignità di storia anche tutti quei costumi, quelle regole, quelle istituzioni, che, se erano importanti nei gruppi etnologici, non erano mai stati presi in sufficiente considerazione nel fare la storia dei popoli civili.”
Il metodo storico consente così di recuperare le strutture profonde dell'esistenza di un gruppo, di attualizzare attraverso la memoria le strutture portanti che danno senso ai comportamenti di un individuo e al suo sistema familiare di appartenenza, che rimarebbero altrimenti quasi del tutto incomprensibili.
Vediamo come si articola questo strumento affascinante, in grado di esemplificare in un'immagine visiva i diversi piani generazionali, in un atmosfera di grande partecipazione emotiva, essenziale come la scena elisabettiana, in cui nessuna quarta parete si frappone fra operatore e utente-utenti, intenti, insieme, a co-costruire quella rappresentazione scenica che è il genogramma
Una semplice T, che rappresenta l'albero genealogico della famiglia, definito attraverso una descrizione articolata e complessa della struttura familiare.
Essa identifica i vari sottosistemi, come l'età e l'intreccio delle parentele, oltre alla rappresentazione simbolica di matrimoni, nascite, aborti, divorzi, separazioni, morti.
Il tutto associato a simboli e segni raffiiguranti i nomi, l'età, il sesso di tutti i componenti della famiglia, oltre anche alla indicazione di persone che hanno rivestito un'importanza affettiva di .tipo parafamiliare, come può essere stato un amico...fraterno, una tata ..nonna o zia ecc..
.A volte, nel prospetto, si possono aggiungere, se ritenute significative, annotazioni attinenti il titolo di studio e l'attività lavorativa..
Come lo storico elisabettiano, l'operatore, entrando in contatto con l'utente-utenti-testi , attraverso il filo della memoria emotiva, lo conduce verso la conoscenza di sé, della propria storia di appartenenza.
D'altro canto, come dice Euripide,un nothos, un bastardo, è un nulla, senza storia, senza nome.Invece questo viaggio della memoria consente di trasformare il canovaccio, in un testo sceneggiato, in cui vengono drammatizzate le relazioni familiari tra le generazioni, per restituire al cliente un più sano equilibrio tra appartenenza e individuazione.
E' chiaro, che l'operatore-storiografo elisabettiano deve saper selezionare i reperti documentari, quelli attinenti, deve essere attento agli aspetti verbali e non verbali del processo comunicativo..
Ciò significa che deve attenzionare le posture, i silenzi, le dimenticanze, le coincidenze, le ridondanze, le malattie, le ricorrenze importanti in quella particolare famiglia, i miti e i non detti, compresi i segreti, le cose indicibili, affinchè tutto acquisti un senso, o meglio altri sensi, perchè la persona possa vivere meglio il presente ed acquisire un migliore orientamento nel futuro.
Così, attraverso la rievocazione di personaggi, vicende, si consente al cliente di ricostruire nessi tra gli eventi, in modo da riconnetterli ad una realtà multilivellare, intreccio tra emozioni e cognizioni,(quale era quella multilivellare, rappresentata dal teatro elisabettiano) che connette ed embrica tra di loro le generazioni in un complesso intreccio tra i testi-documenti simbolici presentati dall'utente e il testo delll'operatore storiografo, (la propria famiglia interiore) ricorsivamente ad essi connesso.
Spetta all'operatore -storiografo dare senso alle potenzialità semantiche e informative dei testi presentati dal cliente, “indagando le loro zone d'ombra, di implicito, di presupposto e di non detto, riducendo i loro margini di ambigutà.......Si potrebbe dire che il compito dello operatore-storico consiste nel trasformare il documento da oggetto materiale, e come tale appunto inesauribile, indefinitamente interpretabile, in un oggetto di conoscenza(o di cultura, mediante l'adozione di precise pertinenze di letture, importanti rispetto a quella che è la prospettiva evolutiva del genogramma
Direi un oggetto co-costruito dallo studioso, e dall'utente- utenti-testi insieme.(altrimenti l'operatore agirebbe in un ottica di colonizzazione).In altri termini nel processo interpretativo di qualunque testo è la stessa verità del testo che dipende dall'interpretazione e non viceversa.
Il testo quindi, comunque lo si indaghi ,non può essere letto nell'orizzonte di un assoluta ed atemporale oggettività, perchè porterà sempre le stimmate della soggettività dello studioso, che non potrà mai porsi fuori dal suo oggetto.
Quanto detto, è altrettanto valido nelle teorie della comunicazione più recenti, cioè quelle costruzioniste, per cui i significati e le identità nascono ontologicamente relazionali, quindi diventa impossibile, non includere l'osservatore nel campo di osservazione.
Il sé si definisce all'interno degli scambi conversazionali, che scandiscono la nostra maniera di essere nel mondo e l'identità è il risultato delle co-costruzioni che avvegono attraverso l'ineliminabile intersoggettività delle storie che ci raccontiamo.
E ciò è vero dall'ermeneutica all' epistemologia batesoniana, alla cibernetica di secondo ordine fino alla metafora narrativa di Wite, che vede nell'organizzzazione e nell'interpretazione dell'esperienza il risultato dei racconti sia a se stessi sia tra le le persone.
Esistono storie dominanti saturate dal problema e storie nuove alternative non saturate dal problema , “storie uniche”e l'idea corale è che “il soggetto non è il portatore dell'a priori kantiano, ma l'erede di un linguaggio storico finito che rende possibile e condiziona il suo accesso a sé stesso e al mondo”.
Chi racconta la sua storia ne prende coscienza nel momento che ne fa una sua testimonianza.,come lo storico che per i greci era colui che aveva visto, così il ricercare nessi tra i fatti è funzionale a ricercarne e svelarne il senso che li percorre.
Anzi, essi diventano storia, quando il loro senso viene assunto nell'orizzonte coscienziale dell'uomo..
Da qui la prospettiva evoluitva del genogramma diretto a riscrivere la propria storia di appartenenza familiare: un epifania laica, volta a ristabilire un giusto equilibrio tra appartenenza e individuazione.
Le Goff ci rammenta che ogni storia è un vedere, il racconto di chi ha visto,sentito, e nel nostro caso provato.E' la passione che fa da filtro allo sguardo.
IIl filosofo Gadamer, citando una frase di Hans Lipps, secondo cui qualunque enunciazione linguistica lascia sempre un “ambito sottinteso”, dice che detto ambito può essere connotato come ”l'infinito del non detto”, intendendo con questa espressione riferirsi al fatto che nessuna semeiotizzazione è esaustiva, completa e chiara , in quanto la parola spesso veicola significati potenziali, non formulati e quindi aperti a nuove interpretazioni.
D'altro canto il dibattito sull'ontologia del sé ha portato alla moderna ipotesi dei sé molteplici, al punto che Markus e Nurius nel 1986 descrivono l'essere umano come una colonia di sé possibili, compresi quelli rigettati e indesiderati.
Boscolo e Bertrando (1996), a proposito della terapia individuale sistemica la definiscono come una dialettica a tre, fra il terapeuta, il paziente e le sua voci interne.
In questo caso le sue voci interne, sono i suoi ricordi, le sue emozioni, le sue sensazioni, che possiamo sicuramente connetterli a quel principio epigenetico che ci indica come le interazioni e le relazioni attuali di una famiglia sono come le matrioske, intrecciate embricate con quelle precedenti, in modo tale che non si può dire delle prime senza ricollegarle alle altre.
Un intreccio quindi tra i propri lettori di vita, (come li chiama Genziana Ghelli) e cioè coloro con cui si sviluppano i primi rapporti affettivi e di accudimento ed altri lettori di vita, che sono gli ascendenti, cui ci lega un filo sottile, a volte inattingibile, ma quanto mai reale.
Ogni persona possiede almeno tre archivi di memoria che la caratterizzano e che condizionano anche la sua maniera di abitare il mondo.
Essi sono. l'archivio post natale che comprende i dati della quotidianità dal momento della nascita; l 'archivio prenatale acquisito durante la vita intrauterina, che comprende i dati chimici condivisi con la madre e quelli veicolati attraverso il liquido amniotico, come la voce materna e i rumori dell'ambiente; infine l'archivio genetico attinente la memoria cellulare che comprende non solo l'ereditarietà fisica contenuta nel DNA, ma anche,se la mente influenza il soma e viceversa, anche i dati psichici diventate tracce genetiche.
Bert Hellinger chiama nelle sue costellazioni,quest'archivio di memoria cellulare, irretimento.
Questo collegamento, fa si che la persona che lo eredita giochi schemi di ripetizione di quella memoria, fino ad una leatà così profonda al proprio nucleo di appartenenza, da essere disposto anche a. morire
Riferisce Genziana Ghelli di aver rilevato connessioni molto significative tra patologie di fegato e rabbie relazionali tra parenti, tumori agli intestini e problemi successori in ordine all'eredità.
Anche di fronte ad un'apparente sterilità, l'impossibilità di procreare, è da rintracciare, a volte, nella storia intergenerazionale rinviata dal genogramma, in cui sembra fossero presenti bimbi orfani, trovatelli o adottati, oppure ripetuti aborti, spesso volontari.
Quanto detto, è ovviamente solo indicativo, va valutato caso per caso,in ordine alla richiesta e alla problematica presentata dal cliente. In altri termini non possono essere formulati sillogismi in Barbara, ma solo sillogismi in erba!
Compito del terapeuta-counselor -storiografo, quindi, in ordine alla richiesta di aiuto, “non è contemplare uno spettacolo che si mostra da sé, ma è agire su questo spettacolo, perchè ceda il suo senso”.
Come? In questo contesto narrativo- teatrale-conversazionale counselor e /o terapeuta, seppure in setting diversi, certamente attraverso l'attivazione del pensiero vago e non solo, coniugandolo con quello rigoroso, come ho detto in premessa.
Non a caso, lo scenario nei contesti di cura o del prendersi cura, anche qui, come quello elisabettiano, fonda la sua forza sulla capacità di evocare simbolicamente ciò che non è presente, attraverso la parola dell'utente testo-drammatico- attore- spettatore co-costruita con l'operatore-storiografo.
La conoscenza del mondo, infatti per il costruzionismo è espressione dei processi di costruzione linguistica: noi diamo senso alle cose attraverso scambi interpersonali storicizzati: il senso delle nostre costruzioni e quindi della conoscenza del mondo avviene attraverso il linguaggio..
Queste teorie, hanno portato,in particolare il gruppo della Scuola Milanese ad un approccio terapeutico, attraverso la conversazione fra terapeuti e consultanti secondo una modalità narrativa, che consente un arricchimento e una ristrutturazione del racconto, utilizzando il metodo della co-costruzione di storie, in modo che siano plausibili in quanto condivisibili sia dal cliente che da persone per lui significative, convincenti nel senso che riescano ad attivare il suo pensiero verso una ridefizione della sua precedente visione dei problemi, ed esteticamente coinvolgenti, tali, cioè, da coinvolgerli in una quotidianità più avvincente e più emozionante...
Stiamo ovviamente parlando di un setting che mette in gioco temi complessi che riguardano emozioni, simboli, percezioni, intuizioni, a volte indicibili, non semeiotizzabili e quindi, come tali, (a differenza delle Scienze della natura che attengono all'ordine della spiegazione, erklaren, con il quale si spiega appunto un fenomeno, dando a questo un significato mediante la sua riduzione all'ordine legale che la ragione stessa anticipa) appartenenti all'ordine della comprensione..(verstehen) e quindi all'ordine simbolico, che è proprio delle Scienze dello Spirito. L'ordine della comprensione apre, così, al senso del fenomeno, ne trascende la spiegazione e il significato, nella consapevolezza di oltrepassarli in quanto limiti stabiliti dalla ragione stessa.
In questa prospettiva per il loro oggetto di studio, sia lo storiografo elisabettiano sia il terapeuta e/ o counselor non si muovono all'interno di quegli isomorfismi suggeriti dal pensiero vago e quindi non appartengono entrambi, per il loro oggetto di studio a quel registro di senso, inaugurato dal Verstehen?
Che significa?
Il senso di quanto detto lo trioviamo espresso con grande profondità da W Dilthey, che a proposito dell'ermeneutica, perchè di questo stiamo parlando, diceva ” comprendere non si riferisce al dato, ma al vissuto,(Erlebnis) che non è un fenomeno dato attraverso i sensi come riflesso del reale nella conoscenza, ma una connessione vissuta dentro di noi.
Movere, delectare, docere, questi tre registri, erano costitutivi del Teatro Elisabettiano, in quanto, come abbiamo visto, la risposta del pubblico elisabettiano era ad alta e complessa partecipazione, infatti l'illusione drammatica non era mai totale, al punto che Bethell la definisce multicosciente.
Però, a questo punto, urge operare alcune differenze fondamentali.
Innanzitutto, quella relazione teatrale, senza la quarta parete, che rendeva meno asimmetrica la relazione attori -spettatori, comunque era diretta ad una manipolazione dello spettatore, (come qualunque teatro, basti pensare al teatro politico del Novecento, che cercava di spingere perlocutoriamente lo spettatore a vere e proprie scelte comportamentali) attraverso strategie seduttivo-persuasive, in quanto, salvo nei casi di avanguardistica provocazione, l'attore cerca sempre di piacere, di affascinare, di convincere.
Nel setting che attiene l'operatore di cura e /o del prendersi cura-storiografo elisabettiano, in questo caso regista dei suoi attori-spettatori, il movere, il delectare e il docere deve essere agito all'interno di una diversa cornice semantica, per attivare a vari livelli la risposta sia emotiva che razionale .
Vediamo come: l'operatore deve suscitare nel cliente forti emozioni, quindi movere, delectare, docere, per attivare un cambiamento fino ad arrivare ad una diversa percezione di sé, che, come dice Duccio Demetrio, non si verifica se non c'è un contenuto da apprendere, capire, usare, costruire, amare così coinvolgente da sviluppare una parte nuova o da rigenerare una parte sepolta.
Il tutto a condizione che la persona desideri appropriarsi di questo qualcosa, che ha il potere di animarlo e non solo di restituirgli un aspetto nuovo ai propri occhi, ma anche a quelli degli altri. ..
.E' ancora la passione che fa da filtro allo sguardo...ci rammenta Le Goff.
Bisogna, sempre ricordare, però, l'ammonimento di Bateson, che, nonostante si fosse sottoposto ad un'analisi junghiana, non nutriva molta simpatia per la psicoterapia, nella quale vedeva potenzialnmente sempre aperta la minaccia della manipolazione dell'altro.
.La figlia Mary Catherine riteneva che detta avversione fosse da riconnettere al fatto, che nel corso della seconda guerra mondiale, l'esercito avrebbe voluto che egli manipolasse i processi di comunicazione, per confondere e disinformare il nemico
Bateson, comunque, nella psicoterapia vedeva una modalità diretta a cambiare le abitudini metacomunicative della persona “Prima della terapia il paziente pensa e agisce in base a un insieme di regole per la costruzione e la comprensione dei messaggi; dopo unaterapia riuscita, il paziente opera in base a diverso sistema di regole”
Però quanto detto è da intendere nel senso che Bateson non ritiene che l'apprendimento due, di cui ho precedentamente detto, possa essere estirpato, ritiene solo che si può ampliare, l'orizzonte delle possibilità comportamentali attinenti la persona che, sarà …anche, oltre a....
Cioè, una persona timida, affiancherà, per esempio, al suo essere timida, anche comportamenti disinvolti, ma non significha che diventerà disinvolta!
Quello che non si deve mai perdere di vista, lo ribadisco, è la prospettiva etica nell'incontro di cura, che vieta la manipolazione dell'altro.
Essa, la prospettiva di cura e o del prendersi cura , come tale nella sua parte processuale ricade nel territorio del sacro, dove recupera insieme alla sacralità una sua dimensione rituale.
Infatti, l'assorta attenzione che il rito richiede, perchè sia convenientemente celebrato, “comporta l'aggiramento della coscienza e rappresenta quindi un aiuto ad accedere alla percezione estetica della natura sistemica del mondo.........in altri termini un aiuto ad accedere alla saggezza”.
Alla fine in questo viaggio attraverso la memoria, transgenerazionale, rappresentato e rinarrato attraverso il genogramma, l'operatore deve saper agire quella saggezza sistemica che pervade in particolare l'ultima opera di Bateson, “Dove gli angeli esitano”,in
cui egli ci invita ad esitare , affinchè il processo di cura non sia ancorato alle logiche della ragione finalistica, che pure sono presenti specularmente nel cliente che chiede, con lo scopo di farsi aiutare e l'operatore con quello di aiutarlo.
”Per Dove gli angeli esitano, c'è poi un altro problema, ancora, quello dell'uso scorretto delle idee....Pensa a quell'orribile faccenda che è la terapia familiare, con i terapeuti che fanno interventi paradossali, per modificare le persone e le famiglie, o che contano i “doppi vincoli”. I doppi vincoli non si possono contare”.
Il processo, in altri termini, nel suo declinarsi lungo l'asse dell'incontro, deve essere “non finalistico, imprevedibile, largamente inconsapevole e caratterizzato da linguaggi non finalistici”
L'operatore terapeuta e/o counselor deve seguire la propria sensibilità, le proprie emozioni, deve esitare a restringere in un concetto, in una diagnosi, in un'attribuzione di significato, il pensiero, non deve essere supponente rispetto al sapere, in quanto il suo lavoro è creativo e per somiglianza ricorda quello dell'artista.
E come l'artista, l'approccio dell'operatore di cura, dovrà essere estetico, fondato cioè sulla conoscenza per sensibilità, e ciò sarà possibile solo se è riuscito, prima di tutto lui, al di là di qualunque training, comunque necessario ed importante, "a fare della propria vita, con tutti i suoi limiti la propria passione".(Enzo Paci)
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Il Counselor: un personaggio in cerca d'autore
Counselling è una locuzione inglese, il cui etimo deriva dal verbo latino consulo-ere , che significa “consolare, confortare, ma anche “venire in aiuto, avere cura, o con riferimento ad un altro verbo latino consulto-consultare, nell'accezione di richiedere il parere di un saggio.
Quanto detto, in sintesi e solo per comodità di discorso, in quanto, già sull'argomento mi sono espressa, in forma molto più esaustiva, nel precedente articolo “Il Counseling (consulenza), in Italia: alcune precisazioni per una condivisione di senso”.
Nonostante la derivazione etimologica con consigliare e consigliere, è necessario ricordare, che la traduzione dei termini counseling e counselor con consigliare, consiglio consulenza, consigliere e consulente, di fatto, non sono assimilabili alla pratica del counseling, in quanto essa vieta il dare consigli,(ciò vale, in molti casi, anche per il setting di tipo psicoterapeutico) così come sancito dai codici deontologici delle associazioni di counseling italiane e internazionali.
Ma riprenderò questo tema, all'interno di un confronto tra il Counseling italiano e quello che viene praticato in altri paesi europei, in particolare il Regno Unito, dove veramente è un'altra cosa, e cioè il counsellor inglese, come vedremo, condivide ben poco con il “nostro counselor,” al punto che l'utilizzazione della medesima locuzione in Italia , a mio avviso è veramente fuorviante, considerato che in assenza di una condivisione di senso, più che mai il nome non è la cosa nominata.
Ma facciamo un po' di storia, prima di andare ai confronti e quindi alle differenze tra le definizioni di Counseling e di counselor utilizzate in Italia e quelle utilizzate in altri paesi europei.
Il Counseling nasce in America negli anni 40, dopo le pubblicazioni di Carl Rogers e Rollo May, entrambi facenti parte di un movimento, fondato sui temi della psicologia umanistica, denominata terza forza della psicologia (alternativa al comportamentismo e alla psicanalisi freudiana) i cui assunti sono l'amore, la creatività, il sé, i bisogni fondamentali di gratificazione e autorealizzazione, la spontaneità, l'autonomia, la responsabilità.
Su questi assunti, com'è facile intuire, i diversi approcci umanistici sono accomunati da alcune matrici fondamentali, quali: la centralità della persona e la relazione con l'altro, infatti è nel rapporto io-tu che si sviluppa l'essere umano, la concezione fenomenologica dell'essere nel mondo dell'uomo, come essere singolo e irrepetibile, la fiducia nella capacità di realizzazione e di crescita dell'essere umano e nella sua capacità di autodeterminarsi. Questa è la cornice semantica, in cui Rogers pubblica “Counseling and Psycoterapy,” dove il cliente viene definito, come colui che presenta la posizione migliore, per fornire indicazioni sui suoi propri problemi e le modalità idiosincratiche per poterle integrare nella sua esperienza personale.
Rogers anzi nel 1950, nella sua opera principale “Client centred therapy”, introduce per la prima volta il metodo del colloquio non direttivo, centrato sul cliente, sostituisce i termini cliente, con paziente e counselor invece di terapeuta, significativamente rivoluzionando, una vecchia asimmetria di relazione tra paziente e terapeuta.
La finalità era quella di ridefinire il potere di quest'ultimo e l'impotere del primo, a cui veniva finalmente restituito il diritto alla competenza e all'autodeterminazione, oltre che alla conseguente depatologizzazione ...dal ruolo di paziente.
Il Counseling è sorto, quindi, su questo impianto teorico e il counselor suo professionista, tradizionalmente deputato alla relazione d'aiuto, era una figura diretta, come dissero Rollo May e Carl Rogers, ad ”assicurare un riconoscimento professionale a tutti coloro che pur non avendo, né volendo, il titolo accademico di psicologo o psicoterapeuta, svolgono un'attività che esige una buona conoscenza della personalità umana.”
Poi Rollo May aggiungeva, che nel caso specifico del counselor, non sarà sufficiente una adeguata formazione teorica, ma occorrerà, che le teorizzazioni siano in parte esperite, attraverso un “training professionale individuale e/o di gruppo”, che garantisca il superamento da parte del counselor, di quella tendenza dell'io ad esercitare un counseling sulla base di più o meno rigidi pregiudizi”.
Ma vediamo, qual'è la situazione in Italia, dove il dibattito nonostante acceso e ricco di contraddizioni, non sembra esitare, a mio avviso, ad una soddisfacente condivisione di senso, vuoi semantica, vuoi istituzionale (chi è e chi fa cosa ), ma le due cose, sono correlate, in ordine alla parole Counselor. Una breve digressione: utilizzo non a caso la nozione di parole, alludendo al fatto che il linguaggio è un insieme complesso di processi, risultato di una data attività psichica, profondamente determinata dalla vita sociale, Per comodità di analisi, esso si distingue in langue e parole. La langue esprime e connota il sistema grammaticale, lessicale e fonematico ed è come diceva De Saussure “qualche cosa che esiste in ciascun individuo, pur essendo comune a tutti e collocato al di fuori della volontà dei depositari”.
La parole è la concreta esecuzione linguistica, l'aspetto individuale del linguaggio, che seppure si articola attraverso le regole della grammatica ,
riflette le scelte personali ed idiosincratiche dei membri di una comunità linguistica.(la lingua d'uso)
Significativo è il fatto di non essere riusciti a ricodificare, com'è avvenuto in altri paesi europei, detta parole, secondo la lingua d'uso e cioè la nostra, né tanto meno regolamentarne la nominalizzazione ..counselor, personaggio ancora, in cerca d'autore confinato di fatto, più tra le semiprofessioni che tra le professioni....come dovrebbe essere.
Per meglio delineare le contraddizioni,in tal senso, elencherò, più per negazione, che per affermazione- definizione, che cosa non è il Counseling, (anche se mio desiderio è quello di giungere a che cosa veramente è il Counseling, o per meglio dire di poter co-costruire una più chiara e gratificante definizione, che possa essere istituzionalmente condivisa e regolamentata, ...non solo linguisticamente ) visto che sembra questa, la maggiore preoccupazione, riportata nei “sacri testi”, per poi giungere alla reale questione di non definizione di fatto, ma anche istituzionale di questa figura...indistinta.. tra la nebbia. (l'iconografia riportata nell'incipit dell'articolo, vuole proprio, con la forza icastica, che solo ha l'immagine, più della parola, dire tutto questo!)
Infatti, com'è noto, una qualche conferma è stata rappresentata dal fatto che il CNEL(Consiglio Nazionale dell'Economia e del Lavoro, istituito dall'art.99 della Costituzione della Repubblica Italiana) nel 2000, ha elencato il Counseling tra le professioni emergenti.
Potrebbe significare che chiunque si può definire counselor e aprire uno studio professionale? Successivamente, il Counseling è entrato a far parte della Riforma delle professioni intellettuali, approvata dal Consiglio dei ministri nel dicembre 2006 e già approdata per una prima discussione alla Camera dei deputati: da allora più nulla.
Nel nostro Paese, a differenza dei Paesi anglosassoni, dove il counseling comincia ad operare negli anni 30 e 40, esso è approdato alla fine degli anni 60, con i cosiddetti operatori d'ascolto, appartenenti spesso ad organizzazioni con una forte impronta valoriale, che svolgevano un'attività di orientamento e supporto alla persona, all'interno di comunità terapeutiche, associazioni di volontariato, centri sociali: essi, secondo alcuni, sono assimilabili agli attuali counselors.
Di fatto il Counseling, soprattutto da noi, in Italia, risente dell'essere una pratica importata dai paesi anglosassosoni e tra l'altro si scontra con professioni contigue, per le quali forse costituisce una minaccia, ancor più perchè non regolamentato.
Vari i tentativi di definire questa competenza, (ma è una competenza, espressione troppo generica e riduttiva o è una professione?) mutuata dalla tradizione anglosassone, come ho già detto nel nostro Paese, con esiti a mio avviso distorti e poco congrui alle sue origini, con il risultato di una vera e propria confusione e indefinitezza, rispetto alla locuzione inglese.
Secondo alcuni, il Counseling è una psicoterapia breve o minore che cura disturbi non gravi e non strutturati della personalità.
Il prof.Felice Perussia, citato nell'articolo di cui sopra, lo definisce una psicoterapia non clinica, e mi sembra uno dei pochi, che attraverso una lunga articolata ed affascinante disamina, chiarisca il senso di questa professione e le reali difficoltà che ostano alla sua collocazione istituzionale
Su internet alla voce Counseling da Wikipedia, l'enciclopedia libera, detta locuzione viene definita nei termini di” un intervento socio-psico-pedagogico, e non psicologico in senso stretto e dunque non di esclusiva pertinenza dello psicologo.”
In parecchi testi, viene condiviso l'uso del termine cura, come impegno, interessamento, attenzione e riguardo alla persona, da non confondere, con
l'approccio psicoterapeutico, volto a perturbare le premesse epistemologiche del cliente.
Viene sottolineato anche, in parecchi testi, che è un'area di competenza psicologica confinante, con il counselling può essere quella del sostegno psicologico, anche se non può sovrapporvisi, nè sostituirlo, al massimo contenerlo, quando l'operatore possiede competenze di questo genere (significa che attiene solo alla professionalità dello psicologo counselor?Non so?..)
In alcuni testi, quando si parla di Counselling, spesso lo si fa per negazione o sottrazione: il Counselling è un intervento non clinico, non terapeutico, non assistenziale, non pedagogico e così via, lasciandone oscura la natura e il senso. Ma cos'è?...
Nella mia tesi, dalla quale ho tratto un saggio, in corso di pubblicazione(v.sito www.counsellingrp.net) questo ragionamento l'ho definito un entimema, e cioè un sillogismo apparente, incompleto, così come viene, definito in Retorica, in modo, come dice Aristotele, che non bisogna nè trovare il ragionamento da lontano (troppo lungo) né svilupparlo totalmente, troppo prolisso, lasciando a chi ascolta il compito di completarne il senso, come se fosse suo compito concludere un ragionamento in modo apparentemente logico. Aggiungo io, giocando sul senso di inadeguatezza, quasi di colpa che si prova a sentirsi non definiti, simulacri, e per questo nella posizione down, di chi ritiene di dover accettare un ragionamento paralogico, di cui forse non ha nemmeno consapevolezza.?
Così alla fine, nonostante le ampie ed articolate analisi discorsive su questa figura, fatte da vari testi, restano aperti interrogativi e perplessità, rese ancor più inquietanti dal fatto, che proliferano varie Scuole di Formazione al Counseling,( alcune Università prevedono addirittura dei master, ovviamente per laureati), con criteri di ammissione molto diversi, che vanno da un qualsiesi tipo di laurea, ad un semplice diploma di scuola media superiore, titolo di accesso, giustamente, fortemente contestato, ma che sembra sia accettato, per la necessità di allinearsi alle ultime direttive europee, in tema di formazione professionale. Infatti dette direttive, richiedono percorsi professionalizzanti più fruibili da parte degli allievi post diploma.
Ma il percorso professionalizzante post diploma è diverso dal percorso post lauream, per definizione, (la cornice professionalizzante e la cornice accademica appartengono a due diversi ordini logici, perchè diversi sono i contesti di apprendimento e quindi gli obiettivi formativi e il destino istituzionale ) infatti il background formativo di un laureato in una determinata disciplina, ha già una sua connotazione-definizione che prefigura specifiche professioni.
In quest'ottica, si ritiene che dovrebbero essere previsti, percorsi differenziati, per laureati e per diplomati, con connotazioni istituzionali diverse ?..Non lo so..... In atto sembra che ci troviamo ... nella “notte in cui tutte le vacche sono nere”.( Con questa espressione, che mi sembra abbastanza calzante, mi riferisco alla polemica sorta tra il filosofo F. Wilhelm Joseph Schelling e G. Wilhelm Friedrich Hegel, il quale paragonava l'Assoluto schellinghiano,nella Prefazione aggiunta alla Fenomenologia della spirito, unità indistinta di natura e spirito, o di soggetto e oggetto a “una notte in cui tutte le vacche sono nere”)
Abbiamo visto cosa succede in alcuni paesi europei, nell'articolo, che ho già citato precedentemte e già pubblicato, ma lo ripeto per comodità di discorso, come i cosiddetti counselor hanno utilizzato altro codice linguistico, per definirsi in maniera conforme alla loro lingua d'uso,ma anche a diverse posizioni istituzionali, in cui alla chiarezza linguistica corrisponde chiarezza normativa ed istituzionale: l'effetto non può che essere la condivisione di senso tra i parlanti, rispetto a chi fa cosa, e soprattutto a chi deve chiedere cosa.( l'eventuale cliente sa cosa deve chiedere e a chi deve rivolgersi)
In Germania, i counselors, appartengono significativamente insieme ai coaches e ai supervisori alla professione di “heilpraktiker fur Psychotherapie”,
che significa “pratica di psicoterapia orientata al benessere” (probabilmente sulla scia del movimento sorto negli anni 70, fondato sulla cosiddetta psicologia del benessere, con il passaggio da un modello centrato sulla malattia ad un modellio orientato alla salute dell'individuo).
In Austria, il Counseling è regolamentato dalla legge federale. Esiste un albo professionale al quale sono iscritti circa 1.500” Lebensberater “(Il termine austriaco per counselor) che significa “consigliere di vita, di esistenza”.
In Svizzera il Counseling o “Psycologische Beratung”, che significa “consigliere psicologico”, viene gestita dalla FSP e dalle leggi cantonali, ma è in fieri un'associazione dei counsellors, separata dalla federazione degli psicologi.
Un discorso a parte va fatto per i counsellors in Inghilterra e in Irlanda che sono uniti, e ciò mi sembra molto significativo, insieme agli psicoterapeuiti in unica associazione, rispettivamente, la BACP,(British Assic for Counselling and Psychotherapy) che conta 6000 membri e la IACP che conta 2500 associati.
Vorrei riportare, senza commenti, una comunicazione da parte di una counsellor italiana , che opera in Inghilterrra, che ho trovato nel Forum della Sico, a riprova come detta locuzione, trasferita, senza un appropriata traduzione nella nostra lingua, come invece è stato fatto da altri paesi europei, sia veramente fuorviante e confondente.
La lettera riporta la data del 24/3/2005, utente Tiziana e-mail:
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, (ho provato ad inviarLe una mail, ma non credo che l'indirizzo di posta elettronica sia più attivo, perchè non mi ha risposto) la trascrivo testualmente...”Lavoro come counsellor( si rammenta che detta locuzione , nel Regno Unito si scrive con due l) a Londra da più di tre anni, e devo dire che sono rimasta scioccata dalle assurdità scritte in Italia
riguardanti il “counselling”.Innanzitutto il counselling non è un sottoprodotto psicologico, ma un tipo di intervento psicologico, a fianco della psicoterapia e psicologia. In Inghilterra, ci sono astati recentemente svariati dibattiti riguardanti la similarità tra counselling e psicotrerapia.
La recente conclusione constata una sottile demarcazione tra le due:si parla di una durata più lunga dei corsi di formazione per la psicoterapia, sebbene oggi un normale corso di formazione in counselling dura tra 1 3 e 1 4 anni;inoltre, si denota una preferenza a favore della psicoterapia per casi di disturbi gravi della personalità, sebbene oggi i counsellors sono impiegati nelle strutture ospedaliere e sono utilizzati come sostegno psicologico parallelo al lavoro svolto dallo psichiatra.
Di conseguenza, la maggior parte dei counsellors in Inghilterra, usa il termine counselling e psicoterapia intercambialbilmente. Questa affermazione può far rizzare i capelli a qualcuno, ma ciò sta nel fatto che c'è una sorta di ignoranza da parte dei miei connazionali su come il counselling si sia sviluppato e affermato qui in Gran Bretagna. Il counselling Britannico è molto diverso da quello italiano:innanzitutto non è solo un intervento a breve termine (il cosidetto short-term counselling)ma per la maggior parte dei casi, counsellors lavorano con i clienti per un periodo che varia da un anno a più anni. Personalmente, ho avuto clienti con cui ho lavorato più di tre anni. Inoltre, il counselling, qui viene definito come una forma di intervento terapeutico: il termine terapia non è solo confinato nell'ambito della psicologia, ma è utilizzato comunemente da tutte le figure professionali per definire il nostro intervento.
Un intervento terapeutico che non si avvale solo delle teorie sistemiche e relazionali, ma utilizza un vasto repertorio delle teorie psicologiche esistenti.Il mio personale indirizzo di base è umanistico: mi rifaccio alle teorie di Carl Rogers e a secondo dei problemi portati dal cliente, utilizzo anche tecniche della Gestalt e TA. Sono presenti anche counsellors che si rifanno alle teorie psicodinamiche (Winnicot, Fairban, etc) e counsellors che usano CBT, e tanti altri ancora.Provenendo da una laurea in psicologia, posso affermare che i corsi di formazione in counselling, sono soddisfacenti e affrontano in profondità tutte le teorie psicologiche esistenti.”
La lettera conclude, dicendo, che la figura professionale del counsellor (appellativo in inglese con due l, a differenza di quello angloamericano che, in genere si usa in Italia con una sola l) è bene affermata in Inghilterra e non incontra tanta resistenza da parte di altri professionisti, come in Italia, dove probabilmente è ancora un fenomeno giovane...
Speriamo che sia solo questo.!...
Ho riportato testualmente la lettera di Tiziana, solo per aprire un possibile dibattito rispetto alle poche somiglianze e alle molte differenze tra il counsellor inglese e il counselor italiano.
Allora, mi chiedo, a questo punto, se sia il caso di trovare altra locuzione per denotare ma sopratutto per connotare questa figura professionale nella nostra lingua, così come si è definita nel nostro costume politico-sociale, in conformita a quanto è avvenuto in altri paesi europei, o viceversa, avvicinarci al modello inglese?
Per quanto mi riguarda, dopo questa analisi discorsiva, in cui a mio avviso ho messo in rilievo, l'insostenibilità linguistica oltre che pragmatica della denominazione di counselor attribuita a questo professionista,(tanto lontano dal suo collega inglese, come ho dimostrato) il cui background, rinvia ad una competenza mututata da più saperi, che vanno dalla psicologia, alla pedagogia, dalla antropologia, alla linguistica, si ritiene che il medesimo debba essere nominato attraverso una locuzione dalla quale si possa evincere con immediatzza e con chiarezza chi è, per consentire, senza equivoci l'orientamento della richiesta e quindi.... chi parla a chi.
Ma ciò non basta, certamente , si rende necessario uniformare i percorsi formativi,(i tempi del training, a chi è diretto e quindi chi fa cosa ) come già è avvenuto con le disposizioni normative del 1994 sulle Scuole di psicoterapia, aperte solo a medici e psicologi.
Ritengo che l'utilizzazione della locuzione consulente psico-pedagogico, e/o socio-pedagogico, o ancora consulente relazionale, che mi sembra la più adeguata, non crei alcun equivoco, in quanto, per se stessa, la funzione orientatrice del cosiddetto counselor (a parte l'assonanza linguistica con consulente, che passa sicuramente nel messaggio analogico) sia ineliminabile, al di là di ogni entimema volto a negarlo.
D'altro canto le locuzioni di cui sopra verbalizzano ed alludono ad un “orientamento” che potrebbe essere meglio negoziato con il cliente, cosi come richiesto dall'epistemologia sistemica sulla cocreazione dei significati, e non solo da quella...Il contrassegno del modo della consulenza sarà ulteriormente specificato degli aggettivi qualificativi scelti, come ho detto, e cioè “psico pedagogico”,” socio pedagogico” , “relazionale”, che non credo possano creare confusione con altre professionalità. Potrebbe essere un inizio, per uscire dalla notte delle vacche nere!
Infine per il principio di non contraddizione, se non si definisce con chiarezza chi è questo professionista o questa competenza, perchè nemmeno questo è chiaro, ...non potremo nemmeno definirne l'identità, e cioè , “è impossibile che la stessa cosa inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto.....Nessuno può ritenere che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni credono che dicesse Eraclito.”, e quindi se non sappiamo se A è uguale a A, non possiamo dire perchè non è B. Questa è la mia opinione, sempre confutabile e comunque sempre aperta alla co-creazione di nuove cocostruzioni di senso.
(Aristotele, Metafisica, a cura di A.Viano, Torino, UTET) |
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