Attraverso i miti:confini e significato della formazione alla cura Stampa





Attraverso i miti: significato e confini della Formazione alla Cura

 

 

Chirone istruisce Achille -Basilica di Ercolano



La figura mitica del genitore che ferisce, o che è ferito, diventa l'enunciato psicologico che il genitore è la ferita. In termini letterali questo significa che riteniamo responsabili i nostri genitori ma lo stesso enunciato, visto come metafora, può significare che quel che ci ferisce ci può anche essere genitore. Le nostre ferite sono i padri e le madri dei nostri destini.

James Hillman



Premesso che il mio lavoro, non sarà ovviamente diretto a parlare della Formazione alla psicoterapia o al counseling, come realtà istituzionali, quindi all’interno di un setting strutturato e connotato come tale, che attiene altri contesti, infatti sarà affrontato solo trasversalmente, nella misura in cui sarà funzionale all’argomento. Quanto detto, nella considerazione che ho scelto la via, indicata da E.Morin , per macroconcetti per costellazioni e correlazioni di concetti perché ” …Le cose importanti non possono essere mai definite attraverso le frontiere, bensì guardando al loro nucleo. “Le frontiere sono sempre sfumate, sono sempre interferenti.” Le idee chiare e distinte di cartesiana memoria alla ricerca di un’improponibile idea sempiterna di verità, non possono essere che fuorvianti, in quanto attengono all’ordine logico della razionalizzazione che “consiste nel voler rinchiudere la realtà in un sistema coerente”

Congruentemente a questa premessa, seguirò un percorso, come dire rapsodico a schema libero e con vari scon-finamenti, sillogismi in erba, pensieri che aprono ad altri pensieri, così come suggeritomi da alcuni miti, nel loro diverso atteggiarsi:dal mito di Chirone, il guaritore ferito al mito di Edipo fino al mito che attiene il labirinto di Cnosso fatto costruire dal re di Creta Minosse, per tenervi prigioniero il Minotuaro, un mostro metà uomo e metà toro.

Evocherò personaggi mutuati dalla letteratura, dalla saggistica filosofica,dalla psicologia, anche analitica, quindi solo spunti riflessioni in modo, da lasciare sempre aperta la possibilità di altre e ulteriori significazioni all’interlocutore-ermeneuta, poiché il significato si costituisce e si arricchisce attraverso la relazione (C.G.Jung).

Non ultimo,tengo a sottolineare che la formazione alla cura di cui parlo in questo contesto,poiché non riguarda un training, come ho già detto, lo attraverserò come un tropo,un operazione volta quindi a creare un luogo traslato, attraverso i miti, in cui nessuno insegna niente a nessuno, dove quindi non si danno risposte,ma dove invece si pongono interrogativi, rispetto alla complessa trama che attiene l’argomento di questo lavoro”. D’altro canto già il concetto di cura rinvia ad una rottura di confini…”perché non c’è cammino valido senza rottura di limiti ”(G.Bataille).

Tenterò, raccogliendo l’esortazione batesoniana, tratta dal saggio,che scrisse con la figlia Mary Catherine, Dove gli angeli esitano, di essere saggia, o per meglio dire, di essere meno stolta possibile scegliendo sempre la condotta dell’esitazione.

Riassumerò alcuni di questi suggerimenti, come viatico, perché mi accompagni in quest’impresa: esitazione a voler sapere a tutti i costi, che è anche contrasto contro la letteralità; cautela a pensare di avere una conoscenza diretta, cioè di non avere un’epistemologia, quella personale con la e minuscola che, viceversa, si costruisce secondo abitudini personali a loro volta favorite dall’appartenenza ad un sistema culturale o scientifico; cautela nell’uso del linguaggio, servendosi di strumenti quali parentesi, corsivo, virgolette, per connotare, aree vuote di significato, di dubbio; esitazione di fronte al nostro sapere, quando lo guardiamo solo per segmenti, perché potrebbe rivelarsi letale; esitazione di fronte ad ogni storia, perché ogni storia è un groviglio di storie; alla fine, esitare ad avvicinarsi su quel terreno “dove gli angeli esitano a metter piede.”

Vorrei precisare, inoltre, che non parlo di un' idea di cura mutuata dalla medicina, per la quale si utilizza la locuzione terapia, con linguaggio medico, e quindi pensata come mezzo di guarigione, con una connotazione che ovviamente allude alla risoluzione favorevole di una condizione morbosa, che non é applicabile, né pensabile, in ambito psicologico, facendo parte della condizione del vivere, affrontare ostacoli e difficoltà, talvolta sotto forma di malattia, la quale può anche rappresentare un’opportunità, anzi un vincolo che può diventare una risorsa, rammentando che “non tutto si può e si deve guarire” (C.G.Jung)

In questo contesto mi riferisco alla cura intesa quindi non come terapia, ma come therapeia, l’antica locuzione greca che indica il prendersi cura di, essere al servizio di qualcuno, di formare, portare il frutto a compimento, assistere.

Therapeia, fra l’altro, dal verbo thero - thersomai (riscaldo, divento ardente) ha una forte valenza simbolica: thero-theros → calore, allude a quella parte dell'anno caratterizzata dalla presenza delle messi e cioè la primavera – estate mentre peutho significa porto, annuncio.

Therapeutes era il servitore, l’assistente, il curatore, nel senso più intimo e personale,del termine, non a caso, Omero, nell’Odissea, connota Patroclo come therapon di Achille, suo intimo amico, quasi un alter ego.

Il tema della cura è stato molto caro alla cultura della Grecia antica ma anche a quella romana, come ci rammenta Michel Foucault in alcuni suoi scritti (L'etica della cura di sé come pratica di libertà, Tecnologie del sé) in cui mette in rilievo come nelle opere greche e romane il famoso detto delfico “conosci te stesso” (gnoti sautòn) era sempre coniugato con la cura di sé stessi, in cui era fondamentale che venissero aperti i confini che delimitavano la conoscenza di sé come fatto puramente mentalistico, cognitivo, all’azione vera e propria, attraverso un lavoro etico ed estetico associato pragmaticamente ad esercizi specifici, diretti ad acquisire consapevolezza di sé, per trasformarlo in condotte di vita, diventare come diceva Epitteto, guardiani di sé stessi.

In età ellenistica, la cura di sé, attraverso, Epicuro , gli stoici, i cinici ecc.. entrò a far parte della cultura del tempo, divenendo una sorta di meditazione che veniva praticata e insegnata anche attraverso la forma scritta, annotare riflessioni su se stessi da rileggere in seguito, scrivere trattati e lettere agli amici per aiutarli, tenere taccuini allo scopo di riattivare nel tempo le verità di cui si aveva bisogno.

Non ultima , Foucault, ci rammenta, come la corrispondenza che si declinava attraverso le lettere amicali costituiva una sorta di esercizio all’autogestione di sé e degli altri.

Lo stesso Seneca, indimenticabile autore delle Lettere a Lucilio, nelle medesime commentava come fosse duplice il significato della lettera, nel suo rinviare ad un processo autoriflessivo per lo scrivente e ad un processo riflessivo per il destinatario, una rottura o per meglio dire un' apertura di confini tre sé e l’altro, una sorta di therapeia, nel significato dinanzi illustrato, che coinvolgeva entrambi gli interlocutori alla cura reciproca e quindi alla continua revisione di se stessi.

Fatta questa precisazione, considerato il titolo indicato in esergo, la prima domanda è perché ho scelto il mito ..a proposito di epistemologia con la e minuscola? Qual è il nesso tra la metafora rinviata dai miti, muovendo da quello di Chirone, il guaritore ferito attraverso Edipo per arrivare al labirinto di Cnosso e la mia idea di cura ?

Andiamo per ordine: perché ho scelto il mito? Il mito, per me è proustianamente “la madeleine inzuppata nel tè,”1, il rientrante di un passato che mi riporta agli anni tra l’infanzia e l’adolescenza, un' intermittenza del cuore, che mi rammenta quanto per me fosse appassionante leggere i libri di argomento mitologico, regalatimi da mia madre, verosimilmente amati anche da lei, che certamente hanno contribuito alla mia educazione sentimentale

Il contenuto dei miti è simile in tutte le culture, come diceva l’antropologo C. Lèvi Strauss e pur nelle differenze culturali è condiviso in quasi tutte le parti del mondo, perché esprime l’attività inconscia dell’umanità, alcuni temi caratterizzanti le rappresentazioni archetipe, significativamente sono presenti in tutta la letteratura.

C.Lévi Strauss diceva che i miti non sono creazioni puramente individuali e che il compito di uno studio scientifico deve essere diretto a dimostrare non come gli uomini pensano e costruiscono i miti, ma come i miti si pensano negli uomini a loro insaputa.

D’altro canto la psicologia sottende un’antropologia, una visione dell’uomo; quella culturale, in particolare, studia i miti e i riti, guardando a quell’aldilà che alberga in fondo alla nostra psiche, attraverso cui, a tratti è possibile intravedere, qualcosa, quell’eccedenza di senso, cui sempre essi rinviano e che ognuno riveste del suo senso.

Jung diceva in proposito, nella sua Autobiografia: che cosa siamo noi per la nostra visione interiore, e che cosa l’uomo sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. Il mito è più individuale , rappresenta la vita con più precisione della scienza . La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola. Nessuna scienza sostituirà mai il mito.

I grandi interrogativi dell’esistenza, l’origine dell’universo, la vita e il suo senso, la morte, la vita oltre la morte , l’amore, rappresentano lo zoccolo duro, la Cosa in sé inaccessibile alla Ragion pura di kantiana memoria, con i mezzi a nostra disposizione. La ragione diurna, quella già citata da E. Morin, che attiene all’ordine logico della razionalizzazione, non ha argomenti convincenti da offrirci, né tanto meno confini permeabili, tali da consentirci di accedervi.

Invece il mito, come d’altro canto, i proverbi ,il sogno, le opere d’arte, riesce a oltrepassarne i confini, dicendoci, che l’esperienza del senso della vita si forma prima di ogni oggettivazione scientifica, come un naturale affacciarsi alla vita con la vita , una vita che riflette se stessa. Ad essi non si può che accedere attraverso l’ordine della comprensione (verstehen) e quindi attraverso le categorie estetiche dell’intuizione, del sentimento, che poco hanno a che vedere con l’universo della scienza.

Solo il mito ci consente di sondare gli abissi dell’anima: è’ importante avere un segreto, una premonizione di cose sconosciute .L’uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso;che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili. Solo allora la vita è completa. (C.G.Jung)

Jung osservava, che “sfortunatamente oggi si da ben poco sfogo al lato mitico dell’uomo:esso non può più creare miti. Così molto gli sfugge:poiché è importante e salutare parlare anche di cose incomprensibili. E’come raccontare una bella storia di spettri , stando accanto al camino e fumando la pipa

Sicuramente, sono proiezioni antropomorfiche, di cui non ci è dato conoscere la validità, ma è certo che per quanto il mythologhein sia un’attività futile per l’intelletto, per l’anima è un’attività salutare perché “dà all’esistenza un fascino che ci dispiacerebbe perdere”.

A questo punto, non mi resta che raccogliere l’esortazione di Jung al mytologhein (raccontare miti) che mi induce a riflettere, entrando nell’argomento che dà il titolo a questo lavoro, sul fatto che la storia e i miti ci narrano spesso di personaggi segnati da mali che non guariscono, da ferite che mai si rimarginano e che restano aperte sino alla morte

Prometeo e Filottete, Edipo e la ninfa Io trasformata in giovenca per aver rifiutato le nozze con Zeus, che troviamo nel Prometeo incatenato, la tragedia eschilea, perseguitata e trafitta da un tafano, che non le da tregua fino alla morte per dissanguamento, Asclepio strappato dal padre Apollo, dal ventre della madre morente Coronide, condannato quindi ad una perdita precoce sofferta nel suo corpo e nella sua anima e ed affidato alle cure del centauro buono Chirone, sono tutti personaggi segnati da una sofferenza senza fine, nel corpo e nell’anima.

Chirone, in particolare portatore di una ferita permanente al ginocchio, procuratagli da una freccia avvelenata con cui Eracle involontariamente lo aveva colpito, simboleggia l’archetipo del primo medico, conoscitore di erbe, che aveva insegnato ad Asclepio l’arte di guarire.

Questa ferita, non poteva guarire, né cicatrizzarsi, ma nemmeno poteva portare a morte in quanto Chirone, era nato immortale. Un’iniziazione alla sofferenza e alla pena di vivere così che è l’esistenza “il varco attraverso cui entrano nella vita la pietà, la compassione, il sentimento della creaturalità” (Gian Piero Quaglino, Augusto Romano) che consentirà a Chirone anziché chiudersi in atteggiamento vittimistico, di farne una risorsa trasformativa. Il dolore come dice Guido Ceronetti, può diventare un’ eterna miniera generativa.

Si può curare, quindi non se si è sani, ma se si è portatori consapevoli della propria ferita, come ci narra la metafora del Guaritore Ferito che emblematizza con grande forza rappresentativa la fenomenologia dell’incontro terapeutico. Jung diceva in proposito nella sua autobiografia: solo il medico ferito guarisce; ma se il medico si rinchiude nell'abito professionale come in una corazza, non ha efficacia: né la psiche né il mondo possono essere ingabbiati in una teoria, perché ciò che conta, è la personalità del terapeuta che non è uno schema dottrinario, ma rappresenta il massimo risultato da lui raggiunto; dobbiamo lasciare alla sfera delle illusioni la possibilità di una redenzione totale dal dolore di questo mondo (Jung)

Ma torniamo alla ferita e a al suo senso. Una metafora? Certamente , in quanto pensiero che procede per analogie e somiglianze, pensieri che associano e collegano, pensieri che connettono e che non ricadono nel territorio della cosiddetta razionalità. Essi presentano spesso una forza rigeneratrice che arriva diretta al nostro emisfero destro e in modo così pervasivo da darci i brividi, una sorta di approccio estetico alla conoscenza per sensibilità.

In questo caso una metafora, che attiene una rottura di confini, tra identità e cambiamento, tra rischio e sicurezza, che significa dare ascolto, tra le mille voci che ci abitano, a quella che ci chiede di scendere nel cuore della vita, correre il rischio,sapendo che la posta in gioco è alta e che la risposta non è linearmente prevedibile. In questo caso,verosimilmente, l’iniziazione richiede un’esperienza di tipo dionisiaco, una vera e propria compromissione di sé, attraverso l’incontro con il perturbante, così come descritto nel bel saggio di Salvatore Pace Perfezione e Completezza:Edipo tra castrazione e sacrificio, in cui Edipo viene significativamente definito un eroe intellettuale, apollineo, che non vuole sporcarsi le mani, non vuole compromettersi, non vuole affrontare il rischio di andare fino in fondo….. oltrepassare i confini…necessari perché l’esperienza sia veramente trasformativa. Ne riporto testualmente il brano relativo

Uccidere il mostro «vuol dire incorporarlo, sostituirlo», assumerlo e guarnirsi delle sue spoglie. Edipo, invece, rifiuta il contatto con la Sfinge, i loro corpi non sono avvinti nella lotta, non c’è mescolanza, commistione. Edipo penetra e scioglie l’enigma con l’intelletto, annienta e uccide con la parola. Fra tutte le sue colpe - scrive Roberto Calasso - la più grave è quella che nessuno gli rimprovera: non aver toccato il mostro. […] La parola permette una vittoria troppo pulita, che non lascia spoglie. Ma proprio nelle spoglie si cela la potenza. La parola può vincere là dove finisce ogni altra arma. Ma rimane nuda, e solitaria, dopo la sua vittoria.L’Io si inebria e si esalta in questo falso trionfo […] Così non c’è trasformazione perché non c’è compromissione.

Il saggio pone l’accento poi sul sacrificio trasformativo, facendo la differenza tra quei tipi di cambiamento che pur operando sul carattere e la personalità di un individuo , non comportano una ridefinizione della assetto psicologico.

Anzi, spesso, rappresentano veri e propri automatismi protettivi , resistenze volte a difendersi da quel mutamento radicale, trasformativo, che costringerebbe ad affrontare quel caos dove il pensiero diventa impossibile (G.Bateson)

Così, l’individuo è preso in un gioco senza fine” perché i cambiamenti che sperimenta, mantengono i suoi apprendimenti e quindi le sue condotte di vita, di fatto invariati (Paul Watzlawick).

Il vero cambiamento trasformativo richiede una rottura di confini tra un prima e un dopo, un salto logico, ed è vissuto come una catastrofe, ma è la condizione della creatività, del cambiamento: Primo, di far luce in noi stessi; e poi di cercare ogni segno di luce negli altri e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro (G.Bateson)

Certamente un training strutturato è importante, ma bisogna rammentare che il processo formativo in tal senso, ritengo debba andare oltre quei confini anzi, travalicarli in quanto, a mio avviso, di fatto dura tutta la vita .Una sua prosecuzione sicuramente è rappresentata dall’incontro con il paziente nel setting terapeutico che si struttura nel contesto di cura, una palestra,un’altra rottura di confini, a volte attraverso salti logici, doppi vincoli, un’educazione sentimentale, che non ha mai fine. Chiudo ancora con il mito, che ha guidato la mia mano in questo percorso, con un ultima rottura di confini e cioè la metafora polisignificante, attinente il mitologema del labirinto di Minosse, a Cnosso, che si attaglia alla vita in generale, ma in questo contesto particolare, al percorso formativo alla cura, nella significanza rinviata dal guaritore ferito: un' iniziazione, ancora, alla sofferenza, una rottura di confini, in quanto attraversamento per un rinnovamento, la cui messa in discussione continua a rimanere aperta.

Il labirinto di Cnosso è di tipo unicursale, quindi così come rinvia il suo contrassegno allusivo del modo….unicursale… é strutturato su un’unica via, priva di biforcazioni, che si intreccia e si avvolge, creando effetti di illusione e di confusione,.

Il labirinto tradizionalmente è un archetipo, che allude a un luogo inquietante di erranza, in cui sembra impossibile trovare una direzione e in cui è facile smarrirsi: un ossessivo intersecarsi di vie, confondente e disorientante in cui raggiungere il centro sembra impossibile, e spesso il percorso è iterativo, cioè costringe ad una sua angosciante ripetizione.

Però, nell’attraversare il labirinto e la sua paradossale anamorfosi, a cui il viaggiatore smarrito deve dare forma, cercando di intuire l’ideazione progettuale dell’ architetto, diventa fondante il momento del transito, del declinarsi del percorso alla ricerca di alternative e direzioni,in cui l’insidia e le aree di confusione sono sempre in agguato,non ultima la presenza del Minotauro, il mostro che lo abita.

Il viaggio però può diventare trasformativo nel momento in cui all’interno dell’anamorfosi i limiti e i confini privi di un senso, perché privi di una visione prospettica, perdono la loro connotazione di barriere, steccati, frontiere, per diventare contesti di significato, che illuminano la strada per raggiungere l’uscita, guadagnare il centro, cioè conquistare un ordine…acquisire consapevolezza.

In realtà, il raggiungimento del centro è solo la prima tappa del cammino…perché il labirinto presuppone sempre un ritorno, in quanto la vita è piena di labirinti, dai quali non sempre si esce vivi, non a caso pare che tutti i labirinti, abbiano l’ingresso a Ovest, che è la direzione del tramonto e della morte.

Come dice il poeta e saggista Paolo Santarcangerli: Beato chi, come Teseo, potrà uscire dal suo labirinto personale una volta per sempre. Ma la vicenda dell’uomo a cui non arride tanto favore degli dei è più grave, quindi il suo errare sarà lungo quanto la vita. Eppure, l’aver raggiunto la camera segreta anche una sola volta modificherà la sua coscienza per sempre.

La formazione per me è questa, aver almeno una volta attraversato il labirinto e essere riusciti a guadagnare il centro, quindi aver saputo tracciare confini ovviamente provvisori, per poterci tornare come terapeuta insieme al paziente, questa volta nel ruolo di Teseo, che non ha più il favore degli dei.

Entrambi si aggireranno tra anfratti, vicoli ciechi e sentieri bui o scarsamente illuminati, a tratti ripercorrendo zone già percorse, tornando indietro, ci saranno momenti in cui si perdono i confini tra chi guida e chi è guidato, …perché “Il terapeuta è "in analisi" quanto il paziente e, essendo come lui un elemento del processo psichico della cura, è esposto alle stesse influenze trasformatrici". Di conseguenza, la personalità del terapeuta è spesso molto più importante di ciò che egli dice o pensa, sino al punto che egli "non potrà mai portare un paziente più in là di dove è arrivato lui stesso (Jung.).

Ciò significa, che in questo attraversamento vissuto insieme, ritengo sia importante che il terapeuta non dimentichi mai di essere Teseo…seppure.., senza il favore degli dei, ma che ciò nonostante potrà aiutare attraverso la therapeia il suo paziente, non tanto ad uccidere il Minotauro, quanto ad affrontarlo e combatterlo, allontanandosene, una volta trovato il centro.

Così, forse, comprendendo anche lui, il paziente, che dalla vita non si guarisce tranne con la morte e che l’idea di guarigione mutuata dalla medicina è fallace, solo un' utopia.

Per me la cura é questa, aver compreso che attraversare il labirinto è solo l’iniziazione necessaria che ci introduce all’idea che la vita presenta spesso situazioni inestricabili, molto simili all’anamorfosi del labirinto, con cui è necessario confrontarsi per assegnare loro una con-figurazione, che li renda con-fini per un significato: un compito, un karma direbbe un orientale, per dare forma e significato alla vita? Forse. Quanto al terapeuta proseguirà la sua formazione alla cura attraversando altri labirinti da solo, ma più spesso ritengo con i suoi pazienti, rammentando sempre che siamo parte danzante di una danza di parti interagenti e che la sonda è sempre conficcata nel cuore dell’osservatore (G.Bateson)

Per chiudere, vorrei solo ricordare, che proprio il labirinto di Cnosso, a Creta, scoperto dall’architetto Arthur Evans nel 1902, era denominato ABSOLUM. Questa locuzione presenta semanticamente una somiglianza molto forte con ABSOLU (Assoluto) termine che agli antichi alchimisti usavano per indicare la Pietra filosofale. E qui si aprono altri confini..di senso per altri sensi…chissà.?

1

Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di biscotto toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva subito resi indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso in cui agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa .

Questo saggio é stato presentato durante la riunione del gruppo studio dell'AIEMS, riunitasi a Spoleto, dal 14 al 17 settembre 2012.